I fantasmi della terra
Dimitar Anakiev si emoziona ancora quando, ogni volta che viaggia, gli chiedono di esibire il passaporto. Non riesce a dimenticare quegli undici lunghi anni in cui è stato costretto a vivere senza documenti, ai margini della società , come altri 12 milioni di “invisibili” nel mondo. Nato a Belgrado, nel 1987 durante il servizio di leva si era trasferito in Slovenia dove aveva conosciuto sua moglie e avuto una bambina. Poi, con la disintegrazione dell’ex Jugoslavia e l’indipendenza slovena, da un giorno all’altro si è ritrovato tra i “cancellati”, in sloveno “izbrisani”: i circa 20mila individui di etnia serba, croata o bosniaca depennati arbitrariamente dai registri di residenza permanente della Slovenia con un atto firmato dal neo-governo il 26 febbraio del 1992. Un silenzioso intervento di “pulizia etnica amministrativa”. Di colpo Dimitar ha perso il lavoro e l’abilitazione alla professione medica finché un giorno è stato deportato e allontanato dalla famiglia per quattro anni.
«È come se mi avessero ucciso, distruggendo la mia dignità », ricorda. «Ma almeno ora un’epoca storica, pagata dal nostro sangue, si è conclusa». La Corte europea per i diritti umani mesi fa ha infatti dichiarato illegale il trattamento delle autorità slovene nei confronti dei “cancellati”, restituendo a Dimitar e agli altri 25mila come lui, sia pure tardivamente e parzialmente, la dignità persa vent’anni fa.
Eppure, negli angoli più nascosti del pianeta, vivono tuttora milioni di “nessuno”: cittadini di nessuno Stato, dimenticati dai governi, ignorati dai censimenti. Se appartenessero alla stessa nazione, calcolati tutti assieme, equivarrebbero più o meno alla popolazione di Cuba o del Senegal. Tuttavia, per definizione, non appartengono a nessun Paese. Sono gli apolidi, i senza “polis”, senza Stato, gli invisibili del mondo. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur/Unhcr), sono almeno 12 milioni. Una stima approssimativa dato che statistiche certe sono disponibili solo in 65 Paesi. Senza cittadinanza, non hanno accesso ai più elementari diritti: l’istruzione, i servizi sanitari o la proprietà . Non compaiono su alcun registro. Non possono viaggiare né votare. Fantasmi per la legge, non possono aprire un conto corrente, contrarre matrimonio o registrare la nascita di un figlio. Alcuni subiscono lunghi periodi di detenzione, solo perché non possono provare chi sono e da dove vengono. Costretti a galleggiare in un limbo legale, lottano per uscirne, per essere visti, per essere ascoltati. «Meno voce hai, meno possibilità hai di essere rappresentato», è amaro il professore Brad Blitz, cofondatore dell’Osservatorio internazionale sull’apolidia.
Si diventa apolidi per diversi motivi: migrazioni, annessione di territori, leggi matrimoniali, contraddizioni legali, pratiche burocratiche mal concepite, discriminazioni, assenza di un certificato di nascita, capricci della storia. Alcuni sono stati cacciati da un Paese e si sono visti rifiutare persino lo status di “rifugiato” dalle altre nazioni, altri non si sono mai allontanati da casa ma hanno scoperto di essere rimasti incagliati in uno slittamento di confini. Altri ancora sono gruppi
marginali la cui nascita non è mai stata registrata. Nel mondo sono almeno 26 Stati, perlopiù in Medio Oriente e in Africa, a impedire alle donne di trasferire la loro nazionalità ai figli.
In Europa l’apolidia è spesso un lascito della turbolenta dissoluzione dell’Unione Sovietica e della Federazione Jugoslava nei primi Anni Novanta. Centinaia di migliaia di cittadini caddero nei vuoti dei criteri di nazionalità adottati dai nuovi Stati o vennero deliberatamente discriminati. Come i “cancellati” in Slovenia o come i russi in Lettonia che, dopo la caduta dell’Urss, vennero etichettati come “non cittadini” perché considerati responsabili dei crimini del regime sovietico. Vent’anni dopo, 400mila persone in Lettonia sono tuttora prive dei più elementari diritti. «Se non faremo nulla per risolvere l’apolidia, il problema avrà un impatto non solo sugli individui coinvolti, ma anche sulle società », spiega Mark Manly, responsabile dell’unità sull’apolidia presso l’Unhcr. «In taluni casi è anche fonte di conflitto».
È quello che sta accadendo in Birmania e Kuwait dove scontri e proteste risalgono a nient’altro che decenni di apolidia. Nella Birmania occidentale continuano da mesi gli scontri tra la maggioranza buddista di etnia Rakhine e la minoranza musulmana di etnia Rohingya. Privati della cittadinanza dal governo, emarginati dalla popolazione, molti Rohingya fuggono in Thailandia o Bangladesh, ospiti riluttanti che negano loro lo status di rifugiati, rimpatriandoli con la forza. E in Kuwait sono giornaliere le proteste dei circa 106mila apolidi su una popolazione di 2,4 milioni di persone. Si chiamano “Bidun” dall’arabo “senza”: residenti illegali per il governo, “prigionieri del passato” secondo un recente rapporto di Human Rights Watch. La loro condizione risale all’indipendenza proclamata nel 1961. Per ottenere la cittadinanza era necessario registrarsi entro il 1965, ma molti non fecero in tempo, altri erano malati o anziani e altri ancora, perlopiù beduini nomadi del deserto, non ne capirono l’importanza. Esclusi solo dal voto, dopo una serie di attacchi terroristici, in un clima di sospetti e di paura di infiltrazioni, negli Anni Ottanta si videro privati anche dei più fondamentali diritti. Da allora il governo sostiene che i Bidun altro non sono che “residenti illegali”, cittadini dei Paesi vicini che hanno deliberatamente distrutto le prove della loro nazionalità per reclamare i benefici della cittadinanza del Kuwait. «Senza carta d’identità né passaporto, non sei a casa nel mondo», dice Mona Kareem, fondatrice della rete Bedoon Rights. «Non hai speranza, anzi non osi neppure pronunciare la parola speranza».
Dai Rohingya ai Bidun passando per i Rom, tutti i fantasmi del mondo mancano del fondamento stesso dell’esistenza umana: un posto da chiamare casa. Per aiutarli a rivendicare i loro diritti, dalla seconda guerra mondiale a oggi, la comunità internazionale ha promosso due trattati: la Convenzione sullo status degli apolidi nel 1954 e la Convenzione sulla riduzione della apolidia nel 1961. A oggi soltanto 66 Stati hanno sottoscritto la prima e appena 38 la seconda. «L’apolidia resta un problema marginale anche a livello internazionale perché decidere chi è un cittadino e chi no è prima di tutto una faccenda politica», dice Greg Constantine, fotografo pluripremiato impegnato da sette anni a dare un volto a chi non ha voce, col progetto “Nowhere People”.
Non mancano però segnali incoraggianti come la recente sentenza europea sui “cancellati”. Ad esempio, i Bihari: dopo aver combattuto a fianco del Pakistan nella guerra del 1971 che portò alla creazione del Bangladesh, erano diventati di fatto “persone non grate” nel nuovo Stato. Nel 2007 si sono visti riconoscere la cittadinanza da una storica sentenza della Corte suprema di Dacca e nel dicembre 2008 hanno votato per la prima volta. Così pure i Nuba in Kenya: discendenti dei soldati sudanesi reclutati dai britannici durante il loro dominio coloniale, dopo l’indipendenza nel 1963 erano rimasti nelle terre dove vivevano da generazioni ma privi di cittadinanza. Il censimento del 2009, per la prima volta, li ha riconosciuti come minoranza etnica e, l’anno dopo, la nuova Costituzione ha previsto riforme per conferire loro la cittadinanza. Esempi che rincuorano i milioni di invisibili nel mondo. A molti di loro, come disse un ex rifugiato cambogiano, apolide per 35 anni in Vietnam, non resta che una speranza: «Che quando morirò io possa avere un certificato di morte per provare che sono davvero esistito».
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