I clandestini della rivolta assolti per «legittima difesa»

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MILANO — Quasi una settimana sui tetti, lanciando sulla polizia calcinacci e rubinetti, grate e suppellettili: i tre cittadini stranieri irregolarmente soggiornanti in Italia, che dal 9 al 15 ottobre 2012 diedero vita a una rivolta nel «Centro di identificazione ed espulsione» di Isola Capo Rizzuto dove erano amministrativamente trattenuti in attesa di allontanamento, «sono stati costretti a commettere» i reati di danneggiamento e di resistenza a pubblico ufficiale «dalla necessità  di difendere i loro diritti (alla dignità  umana e alla libertà  personale) contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta». E «siccome la loro difesa è stata proporzionata all’offesa», vanno non condannati a 1 anno e 8 mesi di carcere, come chiedeva il pm Francesco Carluccio, ma assolti per «legittima difesa». È questa la motivazione con la quale il Tribunale di Crotone il 12 dicembre scorso ha assolto un tunisino, un algerino e un marocchino difesi dagli avvocati Natale De Meco, Eugenio Naccarato e Giuseppe Malena.
Il giudice Edoardo D’Ambrosio muove dal quadro normativo europeo e basa il suo ragionamento sul fatto che i provvedimenti di trattenimento nel Cie emessi dalla questura di Reggio Calabria fossero «privi di motivazione, e dunque illegittimi alla luce dell’articolo 15 della direttiva n. 115 del 2008, così come interpretato dalla Corte di Giustizia europea», perché «omettevano del tutto l’indicazione delle ragioni specifiche in forza delle quali non era stato possibile adottare una misura coercitiva meno afflittiva del trattenimento presso il Cie».
Nel richiamare poi due sentenze del 2009 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che hanno condannato Grecia e Belgio per le pessime condizioni di loro centri di trattenimento, il giudice rimarca nel caso calabrese i «materassi luridi, privi di lenzuola e con coperte altrettanto sporche, lavabi e “bagni alla turca” luridi, asciugamani sporchi, pasti in quantità  insufficienti e consumati senza sedie né tavoli» (adesso c’è la mensa). E trae la convinzione che «le strutture del Centro sono al limite della decenza», usando il termine «nell’etimologia di convenienti alla loro destinazione: che è quella di accogliere essere umani. E, si badi, esseri umani in quanto tali, e non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale. Lo standard qualitativo delle condizioni di alloggio non deve essere rapportato a chi magari è abituato a condizioni abitative precarie, ma al cittadino medio, senza distinzione di condizione o di razza».
L’asserita illiceità  del trattenimento e «le condizioni lesive della dignità  umana» sono «le offese ingiuste» contro le quali gli imputati hanno dunque reagito per «legittima difesa», di cui il giudice ravvisa i tre requisiti. C’era l’«attualità  del pericolo», perché il trattenimento nel Centro «restringeva la loro libertà  e le condizioni ledevano la loro dignità  umana». C’era l’«inevitabilità  del pericolo», perché, «quando l’offensore è incarnato da un apparato dello Stato di diritto, gli imputati non possono essere considerati alla stregua di chi affronta una situazione di pericolo prevista ed accettata, dovendosi sempre attendere da uno Stato di diritto non il rischio di una violazione dei propri diritti, ma appunto il rispetto delle regole, e tanto più dei diritti fondamentali del cittadino». E per il giudice c’è stata «proporzionalità  tra difesa del diritto ed offesa arrecata», perché «il confronto tra i beni giuridici in conflitto è pacificamente a favore dei beni difesi (dignità  umana e libertà  personale), rispetto a quelli, offesi, del prestigio, efficienza e patrimonio materiale della pubblica amministrazione».


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