Hollande alla guerra del Mali

by Sergio Segio | 13 Gennaio 2013 9:49

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Vasto quanto poverissimo spazio sahariano-saheliano (quattro volte l’Italia, un quarto della nostra popolazione), di fatto privo di autorità  statuale, infiltrato da gruppi di terroristi narcotrafficanti, tormentato da ricorrenti carestie e solcato da imponenti migrazioni. Un altro “Stato fallito”, trampolino per il terrorismo islamico? Così pensa Hollande, che lo ha già  ribattezzato “Africanistan”.
Da venerdì mattina l’aviazione francese sta martellando jihadisti e altri ribelli del Nord in avanzata verso la pur lontana capitale Bamako, mentre lo sgangherato esercito maliano appare sbandato. Parigi denuncia la prima perdita – un pilota d’elicottero – e avverte che le operazioni, in cui sono impegnati soldati di alcuni paesi africani oltre a forze speciali francesi e agenti delle intelligence occidentali, non saranno brevi. I bombardamenti aerei avrebbero per ora evitato lo sfondamento del fronte a Konna. Ma a Bamako serpeggia il nervosismo, accentuato dalle pessime performance delle Forze armate regolari. Alcune centinaia di militari francesi stanno affluendo nella capitale per metterla in sicurezza.
Dall’aprile scorso il Nord si è separato dal resto del paese, sull’impulso dei tuareg in rivolta. Gli “uomini blu” sono stati presto sopraffatti dai jihadisti di al-Qaeda nel Maghreb (Aqim), Ansar al-Din e Mujao. Qualche centinaio di combattenti, bene armati e motivati dai guadagni garantiti dallo spaccio di droga e dai rapimenti di walking money: turisti, cooperatori, spie o giornalisti occidentali – tra cui a oggi sette francesi presi in Mali e in Niger – per i quali alcuni Stati di appartenenza usano pagare, senza ammetterlo, riscatti milionari.
Dopo la liquidazione di Gheddafi e lo smembramento della Libia fra le milizie vincitrici, Sahara e Sahel sono in fermento. Stati Uniti ed europei ricollegano l’Africa centro-settentrionale al Grande Medio Oriente e vi applicano gli schemi della guerra al terrorismo. Nello spazio arabo-africano la minaccia jihadista è incarnata da quattro sigle: Aqap (al-Qaida nella Penisola Arabica), al-Shabab (Somalia, dove ieri sono caduti altri due francesi, con l’ostaggio da liberare), Boko Haram (Nigeria) e Aqim (Mali e fascia maghrebina). Si aggiunga la decomposizione della Repubblica Centrafricana, l’ex impero di Bokassa, e si ha un’idea della profondità  della destabilizzazione in atto.
Prima dell’offensiva jihadista su Konna, Stati Uniti, Francia e altri occidentali speravano di riuscire a mettere in piedi entro l’estate una parte consistente dei tremila effettivi dell’esercito maliano e di affiancarvi qualche migliaio di soldati dell’Ecowas (organizzazione regionale dell’Africa occidentale). Anche i nostri carabinieri avrebbero contribuito all’addestramento dei maliani. Con la copertura aerea, logistica e di intelligence occidentale, tale variegata coalizione avrebbe dovuto lanciare in autunno un’offensiva destinata a riconquistare le tre città  del Nord in mano ai ribelli: la mitica Timbuctù, al confine meridionale del deserto, Gao e Kidal.
Il tutto sotto l’ombrello della risoluzione 2071, approvata all’unanimità  il 12 ottobre scorso dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che legittima l’intervento militare in Mali. Con Romano Prodi nelle vesti di inviato speciale del segretario generale delle Nazioni Unite, impegnato da mesi a tessere una tela di Penelope insieme alle diplomazie africane e occidentali, nel tentativo di sedare la crisi, dividere il fronte jihadista e impedire il collasso di ciò che resta del Mali, già  “democrazia modello” regionale.
L’emergenza ha spinto Parigi a intervenire subito da sola (o quasi). In gioco è il suo rango storico nel “dominio riservato” coloniale, tra Maghreb, Sahara e Sahel. Ma anche l’accesso a risorse energetiche di cui l’ex impero africano è ben fornito (uranio, gas, petrolio) e nel cui sfruttamento sono impegnati i colossi dell’industria francese, Areva in testa. Infine, il rischio è che le filiere terroristiche infiltrino la consistente comunità  maliana in Francia e accendano le micce jihadiste celate nelle periferie di Parigi, Marsiglia e altre città  dell’Esagono. Per questo ieri Hollande ha messo in stato di allerta l’apparato antiterrorismo in tutto il territorio metropolitano, a sventare le rappresaglie minacciate da Ansar al-Din.
L’anno prossimo sgombreremo il teatro afghano – non del tutto. Ma la guerra globale al terrorismo continua. Su altri tragici palcoscenici. Più vicini a noi europei. Dunque molto più pericolosi.

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