by Sergio Segio | 26 Gennaio 2013 9:33
È fuga generale degli occidentali dalla Libia orientale sempre più destabilizzata e violenta nell’era del caos post-Gheddafi. Partono uomini d’affari, diplomatici, rappresentanti delle organizzazioni umanitarie, soprattutto se ne vanno i tecnici fondamentali all’industria petrolifera locale. Negli ultimi tre giorni l’elenco degli stranieri in coda all’aeroporto di Bengasi si è allungato dopo che il governo britannico ha ordinato ai suoi cittadini di fare le valige in tutta fretta, in quanto ritenuti in pericolo da quella che il Foreign Office ha definito «una minaccia specifica e imminente». A ruota sono arrivate indicazioni simili da Germania, Olanda e Irlanda. Ieri si sono aggiunti gli australiani. Da Parigi in toni solo un po’ meno gravi si consiglia ai cittadini francesi di «lasciare al più presto la zona» con una terminologia simile a quella utilizzata dalla Farnesina per gli italiani.
Da Roma valutano che le autorità libiche siano al momento «incapaci di assicurare un efficace controllo del territorio» contro la minaccia del fondamentalismo islamico. Dunque: «sono assolutamente sconsigliati, se non motivati da stringenti necessità professionali e non opportunamente differibili, i trasferimenti nella Libia orientale, centrale e meridionale». Un’area vastissima, che comprende l’intera Cirenaica, ma anche Sirte, Misurata e le zone petrolifere in pieno deserto. L’ambasciata italiana di Tripoli, dopo la chiusura del consolato di Bengasi, valuta siano circa 150 i connazionali a possibile rischio (meno grave è invece per gli oltre 600 italo-libici) e sta cercando di spostare nella capitale una ventina che sono ancora in Cirenaica (per lo più tecnici Eni dispersi per gli impianti nel deserto). La paura che si possa ripetere un attacco qaedista simile a quello contro la centrale algerina di estrazione del gas di In Amenas solo pochi giorni fa è contagiosa.
Pure, l’allarme era nell’aria da tempo. Nel giugno 2012 era stato preso di mira a colpi di bazooka un convoglio diplomatico britannico. Poi l’uccisione dell’ambasciatore americano, Chris Stevens, l’11 settembre assieme a tre collaboratori a Bengasi aveva dato l’avvio all’esodo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata però il tentativo di assassinio il 12 gennaio del console italiano uscente, Guido De Sanctis. Da allora il capoluogo della Cirenaica, dove il 17 febbraio 2011 scattò la scintilla della rivoluzione, è considerato pericoloso quanto il resto della regione.
Un destino ben triste e paradossale: due anni fa molti dei suoi abitanti che erano scesi in piazza a rischiare la vita per manifestare contro le famigerate milizie di Gheddafi si percepivano come il fior fiore delle avanguardie destinate a creare un futuro radioso. Oggi vi imperano le faide, le forze di sicurezza latitano, il governo centrale non esiste e cresce il movimento secessionista, le immondizie marciscono per le strade, prolificano la criminalità e l’industria dei sequestri. Soprattutto prendono sempre più piede i gruppi islamici estremisti. Derna, la città costiera alle pendici delle «montagne verdi», che negli anni Venti furono il teatro delle gesta del leader guerrigliero Omar el Mukhtar nella sfida all’ultimo sangue contro le truppe coloniali italiane, è ormai vista come una repubblica indipendente di Al Qaeda. Più a sud nelle oasi di Jalu, Kufrah e Sabah, sono transitate le armi degli arsenali di Gheddafi, saccheggiate e destinate alla guerriglia jihadista che oggi si batte contro il corpo di spedizione francese in Mali. «A Derna i posti di blocco di Al Qaeda controllano le strade. Potrebbero contare oltre 1.000 uomini armati. Le loro milizie si allargano ai villaggi e stanno occupando altre città come Beida per arrivare a Bengasi», ci dicono fonti dell’intelligence libica. Prossimo appuntamento saranno le manifestazioni pianificate per il secondo anniversario della rivoluzione. Sono previste violenze e si temono attentati anche a Tripoli.
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