Gli hacktivisti

by Sergio Segio | 18 Gennaio 2013 5:10

Loading

WASHINGTON. La battaglia del web, fra gli hacker e il sistema, è vecchia in America di almeno due secoli. Ci riporta al 1804, quando due uomini chiamati Lewis e Clark partirono su ordine del presidente Jefferson per esplorare e mappare l’oceano di terra americano. Percorsero duemila chilometri e la loro più grande sorpresa fu vedere che in quell’immenso territorio, dai Grandi Laghi fino al Pacifico, non c’erano un solo steccato, un muretto, un cancello, una barriera, qualcosa che definisse e quindi escludesse, il territorio.
Né Jefferson né i due viaggiatori avrebbero potuto immaginare che la loro avventura nel continente davvero nuovo avrebbe prefigurato quello che oggi sta accadendo nella Terra Nova della Rete. Dove tutto sembrava appartenere a tutti, gli stessi esploratori si trasformavano in colonizzatori e in proprietari.
Chi aveva sognato l’accessibilità  all’intero territorio, chi credeva di potervi galoppare senza barriere, soffriva la parcellizzazione della terra come una negazione della libertà  americana.
E qui, nel classico duello fra il rancher, il contadino/allevatore che cinta il proprio campo, e gli indiani prima e i cowboy più tardi che rivendicavano il diritto di transitare a piacere, che si riproduce la quotidiana, silenziosa, furibonda lotta fra un World Wide Web sempre meno vergine e coloro che vogliono hack, abbattere con l’accetta, spalancarla. Come individui, nella solitudine della propria missione od ormai sempre più organizzati in gruppi di hacktivist, di attivisti.
Nel discorso collettivo e nel lessico semplicistico dei media dove ancora sopravvivono formule ridicole come «il popolo della Rete» descritto come una entità  a parte quando tutti siamo ormai popolo della Rete con una semplice mail o una fattura online, espressioni come hacker, cracker, hacktivist tendono ad acquisire una connotazione negativa. Chi apre con il grimaldello virtuale di codici, virus, “vermi”, phishingla serratura di banche dati, di siti protetti, di librerie riservate ad abbonati, di casseforti di banche, «è semplicemente un ladro, proprio come colui che usa una chiave universale o un piede di porco». Così aveva detto il procuratore del Massachusetts, Carmen Ortiz chiedendo l’incriminazione di Aaaron Swartz, il ragazzo prodigio che era riuscito a scardinare la cassaforte di Jstor, il fondo delle pubblicazioni accademiche, delle tesi, dei journal, per metterle a disposizione di tutti. E che ha chiuso la propria vita ucciso dal male di cui soffriva, la depressione acuta e acuita dalla angoscia di una battaglia che forse intuiva perdente.
La sua fine, che ha addolorato e toccato come una perdita personale tutti coloro che ne avevano amato non soltanto la genialità  informatica, ma anche l’eleganza dei codici che componeva, la sua totale assenza d’interessi finanziari personali a differenza di altri cyber geni o presunti tali passati alla cassa come Jobs, Gates, Zuckerberg, o creatori di Twitter destinato presto all’esordio in Borsa, ha dunque inevitabilmente riscoperchiato il calderone del witches’ brew.
Il brodo di streghe della battaglia per la libertà  assoluta contro la progressiva privatizzazione della Rete. Il New York Times ha affidato a un filosofo e linguista della Northwestern University, Peter Ludlow, il compito di interpretare linguisticamente l’uso di questa parola hacker e del nuovo hacktivism, l’hackeraggio organizzato e militante di gruppi come Anonymous, concludendo, con filosofico distacco, che sono i grandi media che piantano nella coscienza del pubblico le associazioni negative con queste formule.
Ma se i grandi media, i siti commerciali, i “for profit” hanno evidente interesse a proteggere i propri nuovi territori recintati, le notizie di penetrazioni di massa avvenute in database di carte di credito, di profili e attività  private attraverso i social network, di archivi federali contenenti il sacro codice fiscale, di siti militari segreti, addirittura della setta Scientology, alimentano oggettivamente gli equivoci e le paure.
Tutti noi, “popolo della Rete”, vorremmo che tutte le porte fossero aperte, che i segreti di stato fossero scoperchiati, nella certezza aprioristica che essi nascondano ogni sorta di nefandezze e che la promessa di una nuova Biblioteca di Alessandria fosse reale. Dunque pubblica e non a pagamento, come quello Jstor che ossessionava Swartz perché raccoglieva materiale universitario già  pagato con le tasse ma risottoposto a tariffa.
Ma noi stessi pretendiamo che i nostri dati, abitudini, avventure in Rete, conti finanziari usati nel boom dell’e-commerce, degli acquisti online, non siano esposti sulla piazza informatica.
È la contraddizione di fondo, e per ora insoluta, fra privacy e trasparenza, fra diritti a sapere e diritto a nascondere. Per la galassia degli “hacktivist”, il libero accesso a tutto è un diritto civile fondamentale che non può essere negato o limitato Neppure il mondo degli hacker, o dei cracker, parola che richiama la figura del safecracker,
colui che cracca una cassaforte, ha risolto la contraddizione di fondo fra accesso e negazione. La stessa Anonymous pretende di restare appunto anonima, dunque negando a chi l’attacca il diritto che vuole applicare agli altri. Assange e il suo WikiLeaks, che pure vengono difesi come “cappelli bianchi” (opposti ai “cappelli neri” di chi apre le casseforti per lucro o per intenzioni criminali) della trasparenza e della accountability, della responsabilità , non sono visti come hacktivist puri, essendo più distributori passivi e coraggiosi di “fughe” generate altrove, che esploratori diretti di territori proibiti. Il che non trattenne gli anonimi da un assalto di rappresaglia dopo l’arresto di Assange. Swartz era un esempio venerato e ora rimpianto di “cappello bianco”, di genio che metteva la propria prodigiosa capacità  di composizione e di lavoro, non diversa dal talento naturale e poi tecnico di un grande musicista davanti alla tastiera, non per guadagni, ma per fede profonda nella libertà  universale del Web. Non aveva fatto soldi, pur avendo contribuito a Reddit, uno dei massimi strumenti per la lettura e per l’offerta di materiale e a Rss, il sistema preziosissimo di diffusione automatica di contenuti e notizie.
Naturalmente, i grandi provider di reti wifi e telefoniche, come la Verizon americana, conducono una guerra quotidiana tecnologica, propagandistica e psicologica, contro i gruppi e i singoli che vogliono sfondare i cancelli, quali che siano i cappelli che indossano e le intenzioni che hanno. La Verizon, colosso della fibra ottica, del 4G, della Adsl negli Usa annuncia: «Il 2011 — ha scritto la società  di telefonia — è stato l’anno nel quale i cyber attivisti, gli hacktivist hanno superato i cyber criminali nella penetrazione illegale. Dei 174 milioni di dati illegalmente scaricati, 100 milioni sono stati rubati dagli attivisti. Improvvisamente, le zone grigie fra hackeraggio bianco, a fin di bene, e hackeraggio nero, con scopi criminali, spariscono. Sottrarre dati che non ti appartengono non è mai ok».
Ma quello che cifre e le statistiche di Verizon non dicono è l’intento e la finalità  di quei dati sottratti. Gli hacktivist “ideologicamente motivati” spinti cioè da un’idea di Rete e di libertà , da una lotta che spesso si intreccia con battaglie ecologiste, antinucleari, anticapitaliste, sono cosa ben diversa dai cybercriminali che scassinano le casseforti di banche per utilizzare i risultati per sfruttare le vittime. Il colpo grosso dei gruppi come Anonymous nel 2011 fu svaligiare la banca dati di un istituto di credito che aveva ingaggiato una società  specializzata nella sicurezza informatica promettendo di annientare proprio Anonymous. Fu dunque una rappresaglia dimostrativa, che non produsse danni, altro che alla faccia della società  antihacking.
Una soluzione definitiva, un trattato di pace che portino alla convivenza e che risolvano la dialettica universale fra diritti di proprietà  e diritti di accesso, fra l’odiato copyright sulle proprietà  intellettuali, la pirateria, non è in vista e forse neppure possibile. Ogni tentativo di “legislare” un conflitto fondamentale come questo, eppure liquido e spesso impossibile da definire, ha portato a deformi normative che risultano inapplicabili nella pratica o sfacciatamente liberticide, alla maniera di Cina o Iran. Ma anche l’ideologia della Prateria senza steccati, come quella attraversata da Lewis e Clark nel 1804 è, nel caso degli hactivist utopica e in parte ingiusta. La difesa
dei diritti dei creatori di contenuti non è prepotenza, ma premessa perché la creazione avvenga. Tutto costa, a dispetto del mito della Rete gratis che gratis non è affatto, e dunque tutto deve essere remunerato per sostenere i costi. Ma anche l’istinto opposto è altrettanto forte: dove si chiude una porta, qualcuno cercherà  di aprirla. La domanda resta: gli hacker lavorano per noi o contro di noi?

Post Views: 193

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2013/01/gli-hacktivisti/