Fili di memoria intrecciati all’oggi
Per Laurence riflettere sulla propria storia significa ripensare a ciò che è stato rifiutato o travolto dal tran tran Molte autrici canadesi lavorano intorno a un interrogativo di fondo: come recuperare il passato e dargli voce È impossibile fermarsi all’argomento della pura coincidenza di fronte a così tanti nomi provenienti da un unico territorio: il Canada è il paese delle grandi scrittrici. Basta ripensare alle più note per capire che non è una questione esclusivamente riconducibile al genere, con le relative recinzioni che potrebbero derivarne: a fare valore è la qualità alta del lavoro, l’attenzione alla scrittura, tant’è vero che scrivere short stories, anziché romanzi, non è una discriminante.
Esperienze di immigrazione
Possiamo così citare Mavis Gallant (Montréal, 1922), pubblicata da Rizzoli (Varietà di esilio; Un fiore sconosciuto; Piccoli naufragi); Alice Munro (Wingham, Ontario, 1931), che da molto tempo merita il Nobel; Margaret Atwood (Ottawa, 1939), di cui qui ci limitiamo a ricordare The Blind Assassin (2000) e la raccolta Moral Disorder (2006) tradotti da Raffaella Belletti per Ponte alle Grazie; Carol Shields (1935-2003), nata nell’Illinois ma cittadina canadese, Premio Pulitzer per la narrativa nel 1995 con The Stone Diaries (1993, tradotto da Alessandra Cremonese Cambieri per Rizzoli); Anne Michaels (1958), l’autrice di Fugitive Pieces (1996, pubblicato da Giunti nella traduzione di Roberto Serrai); e, infine, Deborah Willis (Calgary, Alberta, 1982), ottima esordiente con la raccolta di racconti Vanishing and Other Stories (Svanire, appena pubblicata da Del Vecchio nella traduzione di Anna Baldini e Paola Del Zoppo, pp. 304, euro 13).
Il Canada, però, sembra rimandare non soltanto a un territorio, ma alle esperienze del mondo che si sono sedimentate in questo luogo; il Canada sta per una cultura, un immaginario, un modo simile di dare attenzione, attraverso il linguaggio, alla posizione e agli incroci delle vite umane nel tempo, oltre che nello spazio: da questo punto di vista, è il posto dove più che altrove è durata l’esperienza viva di quanto le storie degli altri e degli antenati possano arrivare da lontano, perché è terra di immigrazione altissima, ma anche perché è una nazione, diversamente dagli Stati Uniti, dove le differenze di partenza hanno mantenuto più spazio: in senso fisico, materiale, simbolico.
È dunque assai più di una coincidenza, allora, il fatto che la maggior parte delle autrici canadesi lavori attorno a un nucleo di domande centrali: come recuperare il passato e come dargli voce, sopravvivendo all’angoscia dei ricordi, per un verso, e per l’altro rappresentando la natura «vivente» di questa materia. Non si tratta tanto e solo di una questione filosofica, ma di un problema affrontato a titolo di scrittrici. È un interrogativo, dunque, che non chiede risposte di contenuto, ma, anzitutto, di lavoro sulla scrittura.
Oltre l’autobiografia
La memoria, così, diventa un problema di tecnica narrativa: la costruzione del testo deve dare voce alla memoria, per un verso, e per l’altro verso imitare, esprimere, quanto accade ai ricordi durante lo svolgimento della vita reale. Non si tratta, infatti, di una narrativa semplicemente riferibile al genere dell’autobiografia, ma di un discorso capace di costruirsi, attraverso la sua forma, come un’immagine degli anni.
Può trattarsi, per esempio, dei racconti di Gallant, come di quelli dei libri di Munro: i singoli testi sono tracce autoconcluse di un intero che può esistere, ma solo come profilo di un’ombra – e l’uso di questa immagine, vale la pena precisarlo, non c’entra nulla con la retorica dell’abbandono sentimentale.
Vegliarde dispettose
Il senso del tempo – come oblio, come recupero incerto, ma anche come reinvenzione permanente – non guarda mai a un punto finale di armonia; piuttosto arriva dalle fratture a vista tra i singoli testi, che compongono una struttura fortemente scandita (in singoli racconti, in parti, in capitoli dai titoli autonomi, o in paragrafi tematici: linee spezzate, in ogni caso, attraverso le quali vengono smantellati i confini tra racconto e romanzo), e puntano a un effetto di discontinuità , perché il tempo dei ricordi non fa stare tutto insieme, ma è sconnesso e sconnette sempre; la tensione non si scioglie mai. «Ci fanno sudare, le nostre bugie» scrive Alice Munro nel bel libro del 1977 appena pubblicato da Einaudi Who Do You Think You Are? (Chi ti credi di essere?, traduzione di Susanna Basso, pp. 267, euro 19,50).
Per questi aspetti, così centrali, quasi tutte queste scrittrici recuperano l’esperienza di Margaret Laurence (1926-1987, nata a Neepawa, piccolo villaggio nella pianura sterminata del Manitoba). Laurence è stata autrice di racconti e, soprattutto, di un famoso ciclo di cinque romanzi («Ciclo di Manawaka»), scritto tra il 1964 e il 1974, di cui adesso la casa editrice Nutrimenti propone il primo e l’ultimo testo: The Stone Angel e The Diviners, (L’angelo di pietra, pp. 301, euro 18, e I rabdomanti, pp. 528, euro 22, tradotti entrambi da Chiara Vatteroni). L’angelo di pietra era già uscito nel 1995, ma senza troppa fortuna, per le edizioni La Tartaruga. Quanto agli altri tre romanzi, ancora inediti in italiano, i titoli sono: A Jest of God; The Fire-Dwellers; A Bird in the House.
Ciascun volume del ciclo è ambientato intorno a Manawaka, cittadina immaginaria ispirata al luogo natale di Laurence, di cui si ripercorrono gli ultimi cento anni di storia. Hagar, ne L’angelo di pietra, è una donna di novant’anni, ammalata, non del tutto in sé, dispettosa e prossima alla morte, che ricostruisce la propria vita dentro un mondo di relazioni con l’esterno fatto ormai più che altro di pensieri («Si sta avvicinando furtivamente una vecchietta con una gonna di cotone rosa stampato a fiori e impillaccherata dalle tracce di vecchi pasti. Che vuole da me questa vecchia? Dovrei forse parlarle? Non ci siamo mai presentate. Sarebbe un comportamento sfacciato»).
Nella terra di mezzo
Morag Gunn, ne I rabdomanti, ha quarantasette anni ed è una famosa scrittrice di romanzi che riflette attorno al proprio destino, magari chiedendosi «che cosa è andato male?», o cercando i nodi irrisolti della propria famiglia, guardando, attraverso i ricordi, cosa permane delle esistenze che ci hanno preceduto e accompagnato nella propria vita, e, viceversa, cosa si nasconde, del nostro presente, nei frammenti delle biografie altrui.
Non a caso i luoghi a cui tornano in continuazione entrambi i romanzi di Laurence sono le tre zone fisiche e simboliche di raccolta dei resti della vita umana: quella monumentale del cimitero (dove si trova la statua votiva dell’angelo di pietra che dà il titolo al primo libro); quella molesta della discarica; e, infine, la terra di mezzo tra vita e morte della casa di riposo, che torna anche nella Munro di Chi ti credi di essere?.
Riflettere sulla propria storia significa ripensare a cosa è stato seppellito, rifiutato come «robaccia», oppure cercare, proprio come un rabdomante, le vene d’acqua nascoste sotto la corrente del nostro gran daffare: «Ricordo la loro morte, ma non la loro vita. Eppure sono dentro di me, mi scorrono nel sangue a mia insaputa e si muovono in incognito nella mia testa» (I rabdomanti).
L’aspetto più sperimentale della scrittura di Laurence è quello che ha lasciato le maggiori tracce anche nelle autrici successive. Si tratta della scommessa, affrontata in senso tecnico, di comporre una narrazione intorno alla memoria di un luogo mettendo su un edificio testuale che fosse capace non tanto di recuperare il passato, ma di far trovare al presente il posto nel passato – «Non era colpa di nessuno. Dove cominciano le cause, fino a dove bisogna risalire?» (L’angelo di pietra).
Quel che una foto nasconde
È una questione di «taglio» della storia, come si vede, che l’autrice risolve lavorando su due piani: in primo luogo organizzando una struttura sezionata in nuclei di racconto che non procedono secondo un modulo di scorrimento uniforme e graduale, ma sono composti di incroci continui tra scene del passato e situazioni presenti, e potrebbero dunque esistere anche da soli.
Come in molte raccolte di racconti di Munro, e particolarmente in Chi ti credi di essere?, non siamo in presenza di opere dove, superata la prima pagina, la voce narrante racconta in flashback la propria storia, ma di trame vive della memoria che ricostruiscono la vita presente delle protagoniste man mano che si riprendono parti del passato: «Tengo le fotografie non per quello che mostrano ma per quello che vi è nascosto» (I rabdomanti).
In secondo luogo, Laurence escogita un punto di vista autobiografico tutto particolare, perché nutre i ricordi della vita presente, creando un senso continuo di sovrapposizioni e slittamenti tra la familiarità con cui l’io riprende la propria storia e l’estraneità con cui questa storia rivive sulla superficie, ora perché si mescola al presente (alternando magari, ne L’angelo di pietra, il ricordo dei piaceri sessuali di cinquant’anni prima alle sensazioni fisiche di un esame radiologico all’addome), ora perché è rivista, trasformata dal presente.
Un «io» in movimento
«Un pregiudizio comune – scrive Laurence ne I rabdomanti – è che non possiamo cambiare il passato – tutti cambiano costantemente il loro passato, ricordandolo, correggendolo. Che cosa è successo in realtà ? Una domanda priva di senso. Ma alla quale continuo a cercare di rispondere, sapendo che non c’è risposta». Se ci pensiamo, è un passaggio che potrebbe funzionare anche per capire uno dei libri più noti di Alice Munro, La vista da Castle Rock, dove la ricostruzione del passato scozzese delle origini si mescolava – procedendo anche qui per scansioni mentali e narrative – al memoir della propria vicenda famigliare.
E vale anche per l’ultimo pubblicato, Chi ti credi di essere?, dove il recupero delle memorie della protagonista, Rose, è, nel medesimo tempo, anche una riflessione continua su quanto, ogni volta che l’io ripensa e rivede se stesso nel passato, narri a sé e agli altri, a furia di tagliare tra i ricordi, una storia sempre viva e diversa.
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CONTRAPPUNTI
Altre voci dal Québec
Se in Italia i nomi di Alice Munro o di Margaret Atwood sono ormai familiari a chiunque abbia consuetudine con la narrativa contemporanea, non è così per le scrittrici di lingua francese del Québec. Ben poche infatti sono state finora tradotte nel nostro paese, a dispetto di una produzione ampia e di ottimo livello. Fra le eccezioni non si può non citare Anne Hébert, protagonista del ‘900 letterario quebecchese, scomparsa nel 2000 a ottantatré anni: tre suoi romanzi («I bambini del Sabba», «L’ultimo giorno dell’estate» e «Un vestito di luce») sono stati pubblicati dalla piccola casa editrice di Luciana Tufani, da sempre tesa a valorizzare la produzione culturale delle donne del passato come del presente. Ma fra le autrici oggi attive a Montréal e dintorni, tante meriterebbero di essere conosciute: Monique Proulx, per esempio, il cui «Champagne», uscito da Boréal nel 2008, rivela un occhio acutissimo sugli andirivieni dei comportamenti umani, ma anche sulle minute manifestazioni del mondo vegetale e animale. O come Madeleine Monette, di cui da poco è stato ripubblicato da Typo il primo romanzo, «Le double suspect», del 1980, ambientato in parte in una Roma tutt’altro che cartolinesca.
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