Federalismo insalubre
Finito nel buco nero di un «federalismo di abbandono», il Sistema sanitario nazionale sarà uno dei nodi cruciali che inevitabilmente il prossimo governo si troverà a dover affrontare. Ma piuttosto che riformare di nuovo il Titolo V della Costituzione, Giovanni Bissoni, ex assessore alla salute del Pd dell’Emilia Romagna, e presidente Agenas (Azienda nazionale per i servizi sanitari regionali) invita a rispettarlo, «come non si è mai fatto». «Il prossimo governo – dice – dovrà cominciare col riscrivere subito il patto della salute per la salute tra regioni e stato, cercando di fare chiarezza sulle ragioni e i torti nella frattura che di fatto si è creata tra i governi territoriali e quello centrale».
Iniziamo col fare chiarezza su un punto: il nostro Ssn è invidiabile o no?
Si parla di sanità in modo un po’ schizofrenico: l’Oms dice che il nostro Ssn è il migliore del mondo perché tiene in considerazione l’universalismo, le campagne di screening, le vaccinazioni, ecc. Ma tra i 32 paesi dell’Ocse, l’Italia, per spesa sanitaria, occupa la parte finale della graduatoria. Siamo un disastro per l’incapacità di governare la spesa ma anche per i servizi ai cittadini. Perché, a parte l’universalismo, quando l’Oms misura la qualità dei servizi registra un’Italia divisa in due: il nord è tra i primi posti in Europa e il sud è tra gli ultimi. In realtà , è un Paese che spende in sanità mediamente meno degli altri Paesi a noi paragonabili, spende enormemente meno dei Paesi con mercato sanitario a sistema misto, e secondo la Corte dei conti la sanità è uno dei servizi pubblici che meglio ha imparato a governare la spesa. Ma se c’è un divario tra Nord e Sud, l’unica differenza sta nella capacità di governo e di controllo.
Non crede che a monte di questo divario ci sia il federalismo come è stato pianificato nella riforma del titolo V della Costituzione, con la salute trasformata in materia concorrente?
La riforma del titolo V ha investito il Nord come il Sud. Allora il problema è il titolo V o come abbiamo attuato la riforma? Io insisto che i diversi modelli organizzativi del Veneto, Lombardia, Emilia Romagna e Toscana complessivamente rendono ai cittadini servizi di valenza europea, mentre nel Mezzogiorno non è così. Allora il problema è che il titolo V prevedeva in capo allo Stato il compito di fissare i livelli di assistenza, il finanziamento e le norme generali di organizzazione. A livello centrale dovevano esserci funzioni di indirizzo, valutazioni e verifica e in caso di difficoltà di accesso da parte dei cittadini o di sforamento dei bilanci lo Stato doveva prendere tutti i provvedimenti necessari, di affiancamento fino ai poteri sostitutivi. Ma lo Stato non lo ha fatto, se non dal punto di vista economico e finanziario. Perciò oggi in Campania, ad esempio, i cittadini stanno pagando un’addizionale per i cosiddetti piani di rientro ma c’è un peggioramento della qualità dei servizi. Stessa cosa avviene nel Lazio, e forse proprio i disservizi sono la causa dei disavanzi.
Un federalismo dunque che non ha funzionato a causa dello Stato, non delle regioni?
Qui sta il nodo: non c’è dubbio che l’attuazione della riforma, come dice il mio presidente Vasco Errani, è avvenuta in una sorta di federalismo di abbandono, tra l’enfasi leghista della separazione e la sostanziale volontà dello Stato di liberarsi di un problema. Per questo è mancata la garanzia nazionale a tutela dei Lea che in base alla Costituzione è l’unico parametro per il quale sono consentiti i poteri sostitutivi. Il Ssn italiano non è nato come quello francese o inglese con una funzione centralistica dello Stato quanto piuttosto dalle autonomie territoriali, comunali prima e regionali poi. È vero che le regioni hanno la responsabilità gestionale ma quella sui livelli assistenziali sta in capo allo Stato. L’autonomia delle regioni non ha prodotto disastri dove ha funzionato: il servizio delle regioni del Nord è enormemente cresciuto in questi anni, nel pareggio di bilancio. Ma le differenze tra Nord è Sud che c’erano prima della riforma del titolo V, dopo non son cambiate e per certi aspetti sono aumentate.
In altre parole, sono stati posti parametri e obiettivi comuni senza immaginare un percorso per equiparare le capacità di governo dei territori. Non era prevedibile che andasse a finire così?
Certo: le norme che regolano la sanità in Lombardia o in Calabria sono le stesse, i soldi sono gli stessi, perché fortunatamente, finché non scatta il trattenimento del 75% della ricchezza prodotta come vorrebbe la Lega, il Fondo sanitario nazionale viene distribuito senza alcuna relazione con la produzione di ricchezza. Allora lo Stato doveva affiancare le regioni del sud superando i problemi che hanno, fino al punto di usare i poteri sostitutivi. E invece ci si è preoccupati unicamente di mettere al riparo i conti, tant’è che lo Stato non paga più i disavanzi delle regioni, ma li fa pagare ai cittadini.
Il fondo sanitario è di 107 miliardi di euro (1816 euro pro capite) a cui vanno aggiunti almeno 30 miliardi di euro che gli italiani spendono di tasca propria per i ticket (circa 4 miliardi), le spese odontoiatriche, le spese per la non autosufficienza. Mentre il rapporto fra spesa sanitaria (che oltre al fondo comprende gli sforamenti regionali) e Pil si è attestato al 7,1%, nel 2011, con una riduzione di due decimi di punto percentuale rispetto al valore del 2010 (dati della ragioneria generale dello stato). È uno dei più bassi in Europa. Allora perché si taglia con la spending review?
La manovra non nasce da parametri oggettivi perché lo Stato aveva garantito finanziamenti che erano abbondantemente in competizione con l’Europa. Tanto che le famose raccomandazioni europee (a cui si è adeguato Monti, ndr) riguardavano il sistema pensionistico ma non quello sanitario e nemmeno quello scolastico. La manovra nasce dalla crisi del bilancio dello Stato e quindi si fa cassa con la sanità . Certo, nessun servizio sanitario al mondo è privo di margini ulteriori di efficienza ma rispetto al costo differenziale della siringa pesa molto di più la prestazione inappropriata. Tra prescrizioni improprie, posti letti malgestiti, eccetera, si arriva anche al 30% di differenza nella spesa farmaceutica tra le regioni. Per fare un esempio, nel Lazio, che matura il maggior disavanzo d’Italia, il livello maggiormente fuori controllo è quello ospedaliero. In questa regione si registrano pronti soccorso intasati e barelle usate come letti, come se il Lazio dedicasse poche risorse all’ospedale, e invece non è così. I pronti soccorso di Roma in termini di accesso non sono più affollati di quelli di Milano, ma il problema è l’organizzazione. Prendiamo le ambulanze: ai mezzi dei 118 si aggiungono quelli delle compagnie convenzionate, ma poi all’«occorrenza» si ricorre ad altre ambulanze, quando per motivi ancora a volte non del tutto chiari i mezzi in servizio non bastano. In ogni altra città , invece, si usano sistemi di accreditamento in base alla previsione del numero di ambulanze necessarie. Non è difficile, si fa da anni.
Ecco di nuovo la questione pubblico/privato nella sanità : si potrebbe infatti supporre un interesse particolare nel far scattare fabbisogni «imprevisti». Che ne pensa?
I vari sistemi di governo regionale – per esempio in Lombardia conta di più l’assessorato, mentre in Emilia Romagna c’è più autonomia delle Asl – devono saper programmare e decidere le priorità assistenziali o le prestazioni ospedaliere di cui si può fare a meno perché inappropriate. Nell’ambito della programmazione è la regione che decide la percentuale di privato, di pubblico, di universitario, ecc. Se la regione non fa bene il proprio mestiere, qualunque soggetto erogatore ha spazio per coltivare i propri interessi. Nel pubblico invece la mancanza di governo si trasforma in benefici di altra natura: sprechi, inefficienze, assunzioni non necessarie, aspettative di carriera o professionali. Per esempio, le famose 17 chirurgie dell’Umberto I, siamo sicuri che corrispondono a un’esigenza assistenziale?
Proprio per l’Umberto I la settimana scorsa il governo ha sbloccato fondi per 104 milioni di euro. Allora, se ne esce tornando a rafforzare il ruolo dello Stato?
Occorre rafforzare le funzioni di monitoraggio e valutazione assegnando le responsabilità anche per quanto riguarda la qualità dei servizi. Da questo punto di vista credo che vada riscritto il Patto tra le regioni e lo Stato, con un equilibrio maggiore tra esigenze di bilanci e miglioramento dei servizi. Attualmente il ministero stila una sorta di graduatoria dei livelli di assistenza regionali, ma non è pubblica: ogni regione conosce la propria valutazione ma non quella delle altre. Io invece ritengo che i verbali sui livelli assistenziali debbano essere resi pubblici allo stesso modo di quelli economico-finanziari.
Quali conseguenze hanno avuto i tagli governativi?
La manovra di 30 miliardi di euro nel periodo 2011-2013 secondo il governo non riduce i servizi ma solo le inefficienze. Ma il deficit provocato dagli sprechi del Lazio, per esempio, lo stanno già pagando i cittadini laziali di tasca propria. La manovra quindi non incide sugli sprechi ma taglia linearmente il fondo sanitario nazionale che è ripartito tra le regioni proporzionalmente al numero di cittadini. Così, le regioni virtuose non hanno i margini per un ulteriore risparmio. Allora la manovra dello Stato avrebbe dovuto prendere a riferimento non gli sprechi del Lazio ma la qualità dei servizi della Toscana, per esempio. Ecco perché le regioni non hanno approvato il Patto per la salute; e questo è un dramma, perché vuol dire che vengono meno gli obiettivi comuni. Adesso sì che siamo in emergenza sul titolo V della Costituzione, perché col venir meno del patto tra regioni e Stato, il sistema entra in cortocircuito. Il governo che nascerà dopo le elezioni avrà necessariamente bisogno di fare chiarezza su questo punto.
Cosa dovrà fare, secondo lei, il prossimo governo?
Deve prima di tutto capire che la manovra non è compatibile con la salvaguardia dei Lea neanche se si taglia tutto quello che è stato indicato dal governo. Non sono nemmeno convinto che il riordino ospedaliero, e tutto il resto, garantirà l’equilibrio economico-finanziario. Il prossimo governo deve verificare chi ha ragione in questa disputa tra lo Stato e le regioni e cosa vuole fare del Ssn. E, nel caso non avesse ragione il governo Monti, allora bisogna subito disinnescare la tagliola dei 2 miliardi di ticket in più che scatterà l’1 gennaio 2014. Si aggiungeranno ai 3 miliardi di euro che si incassano oggi con i ticket, quasi un raddoppio. Una manovra più impattante dell’Iva.
Monti e i liberisti bocconiani vorrebbero introdurre un sistema di mutualità integrativa. Le sembra una soluzione?
Vedo grossi pericoli: sarà sempre più conveniente rivolgersi, per alcune prestazioni, alla sanità privata. Che oggi molto spesso è low cost. Se non c’è un’equità fiscale maggiore, poi, la manovra ticket rischia di scaricarsi sui soliti noti. Se si vuole mettere in piedi un sistema di mutualità integrativa che dia copertura maggiore ai cittadini per le cure odontoiatriche, per la non autosufficienza, va bene. Ma sarebbe solo una tutela in più per il cittadino, non un risparmio per lo Stato. Se invece si cerca un riscontro positivo sul Fondo sanitario nazionale, allora bisogna ridefinire il perimetro dell’universalismo. E questo evidentemente è un problema politico, non tecnico. Ma io credo che sarebbe una perdita politicamente inaccettabile, e aggiungo anche che non è neppure un affare per lo Stato: i sistemi di carattere assicurativo o quelli misti non hanno mai abbassato la spesa pubblica. Un scelta iniqua, dunque, e nemmeno conveniente.
Ma lei non crede che il prossimo governo ripensare anche questa forma di federalismo, almeno per la sanità ?
Assolutamente sì. Innanzitutto bisogna abbandonare la posizione enfatica di chi vedeva nel federalismo della sanità l’anticamera del separatismo. Abbiamo poi bisogno di rafforzare le funzioni centrali perché la manovra del governo, non ci vuole un indovino a capirlo, aumenterà il divario tra nord e sud del Paese. E i piani di rientro sono un’enfatizzazione dei poteri dell’economia rispetto ai servizi. Abbiamo indebolito il ministero della Salute al punto tale da farlo assomigliare a un dipartimento del ministero dell’Economia. È una violazione dei diritti dei cittadini.
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