Elogio delle chiese silenziose e vuote

by Sergio Segio | 28 Gennaio 2013 8:21

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  Qualche tempo fa — il giorno di Santo Stefano — sono andato in una chiesa del mio quartiere. Tutte le porte erano chiuse a chiave o con robusti catenacci. La chiesa era impraticabile, come certe chiese protestanti olandesi, che aprono un’ora al giorno o meno, solo durante le striminzite funzioni che il pastore accorda ai suoi fedeli. È così bello entrare nelle chiese vuote, dove non soffia nemmeno un respiro umano; e sedersi su un banco o una seggiola, pensando, ricordando, fantasticando, rimuginando. La mente sembra più libera, più vasta, più oggettiva, più sicura di sé; e vaga dovunque attraverso i cieli oppure si concentra in un punto fisso del cielo. Vive di pura contemplazione, nello spazio pieno di silenzio e di echi. Essere soli nella chiesa vuota dà  all’anima una quiete e una profondità , che altrimenti non conosce. La fede solitaria, da solo a solo con il Figlio o il Padre: non c’è nulla di così intimamente cristiano. Tutto il resto del mondo è dimenticato. Non ci sono più i sentimenti, le passioni, la coscienza dell’io, l’orgoglio, il desiderio di potere, il desiderio di scrivere.
L’Islam conosce un’altra esperienza dello spazio religioso. Quando si entra in una moschea egiziana o persiana, centinaia di persone stanno sedute a terra, su un tappeto o con le spalle contro il muro. Qualche volta parlano con Dio: più spesso parlano, chiacchierano, cinguettano tra loro. Tanti sono gli argomenti possibili: gli amori, gli odi, la politica, gli affari del giorno o della settimana. Si compra, si vende. Qualche ragazzo studia, a mezza voce, su un libro di testo gualcito. Un europeo ha l’impressione che nella moschea piena una sola figura manchi: quella di Dio. Non è vero. Sotto la cupola della moschea, Dio esiste, ma confuso con tutti gli esseri umani, con tutta l’immensa e colorata realtà , della quale è Signore unico e nella quale sembra perdersi.
Se le nostre chiese sono vuote, la ragione è semplice e tutti la conosciamo. Come deplora il Pontefice, il cristianesimo, almeno in apparenza, è stanco: i cristiani, che frequentano le chiese occidentali, diminuiscono ogni giorno. La nostra religione si sta dunque estinguendo? Non lo credo affatto. In questi ultimi sessant’anni, il cristianesimo ha perduto i fedeli che veneravano il Cristo perché così volevano il potere e la società : dunque, mai o quasi mai per un impulso religioso. Ora, dopo tante perdite, sono rimasti i cristiani puri: quelli che siedono o pregano nelle chiese vuote, che leggono i Vangeli e le migliaia di libri, che la fede e la tradizione hanno ispirato durante quasi venti secoli. Labbra silenziose discorrono con il loro nascosto ispiratore. C’è una prova. Oggi, quando il loro numero è diminuito, i cristiani dell’Occidente leggono molti più libri di ispirazione cristiana o religiosa, di quanti non ne leggevano sessant’anni prima. Ci sono moltissime case editrici: innumerevoli edizioni di testi e di commenti. La tradizione viene esplorata, ripensata, confrontata con la vita e il pensiero del nostro presente.
Ho sempre pensato che i cristiani fossero destinati a essere pochi: una religione di minoranze esclusive e difficili. Sono stati così anche alle origini, lungo il lago di Galilea o in Giudea o nella Siria, quando i Vangeli raccontano che solo i demòni sapevano che il Gesù era figlio di Dio, o sempre, durante la storia, quando gruppi di minoranze coltivavano una fede complessa e ardente, mentre attorno a loro decine o centinaia di milioni di apparenti cristiani praticavano una fede ignara e indifferente, sebbene clamorosa. C’è un grande pericolo, lo so, nelle religioni di pochi: la presunzione, l’arroganza, lo snobismo. Ma, se i pochi pregano e leggono e cercano di capire e capiscono, questo pericolo è dimenticato.
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Così i cristiani leggono e debbono leggere i Vangeli. È una lettura ardua, che incontra difficoltà  di molte specie. In primo luogo, il testo dei Vangeli è un fittissimo intrico di citazioni dall’Antico Testamento: bisogna comprendere come Gesù abbia trasformato una massima di Mosè o di Isaia o dei Salmi. In secondo luogo, è impossibile afferrare le parole di Gesù, se non conosciamo la complicata religione del medio o del tardo giudaismo. Quando leggiamo i Vangeli urtiamo contro molte espressioni simboliche, dove il contenuto e la forma del messaggio sembrano o sono in violento contrasto l’uno con l’altro. Infine, proprio nei momenti culminanti, ci sono superbi apoftegmi o massime paradossali che in apparenza offendono la fantasia e l’intelligenza dei fedeli. Spesso le parole di Gesù, specie se le paragoniamo tra loro, sono avvolte da un fitto alone di mistero.
Dobbiamo essere presi per mano, così da comprendere tutto ciò che è difficile o ambiguo. Abbiamo bisogno di eccellenti commenti: di natura sopratutto teologica. Così mi è caro ricordare i volumi del Commentario teologico del Nuovo Testamento, pubblicato da Paideia, una delle migliori case editrici italiane, certo la migliore in ambito religioso: volumi con il testo greco di ogni vangelo, traduzioni, commenti di millecinquecento o duemila pagine, che affrontano con sottigliezza e coraggio i segreti sui quali è fondata la civiltà  occidentale. Il Vangelo di Matteo a cura di Joachim Gnilka, in due volumi: Il Vangelo di Marco, a cura di Rudolf Pesch, in due volumi: Il Vangelo di Giovanni, a cura di Rudolf Schnackenburg, in quattro volumi.
Il Vangelo di Luca è stato pubblicato in due volumi a cura di Heinz Schà¼rmann. Ma il commento si interruppe, per la morte dell’autore, all’undecimo capitolo di Luca; ed è stato sostituito da quello di Franà§ois Bovon, del quale sta per uscire il terzo volume, completando il grande Commentario teologico. Sono tutti, sempre o quasi sempre, testi buonissimi, che rispondono chiaramente ad ognuna delle nostre domande.
Non posso dimenticare un’opera fondamentale: il Grande lessico del Nuovo Testamento, a cura di Gerhard Kittel e Gerhard Friedrich, in quindici immensi volumi, sempre pubblicati da Paideia. È una lettura che consiglio a tutti i lettori posseduti dalla pura passione di conoscere. Ogni voce del Lessico studia il significato della parola nel greco classico: nel greco ellenistico: nei termini equivalenti dell’Antico Testamento, nel giudaismo ellenistico e rabbinico, nei testi apocalittici, di Qumran e della gnosi; e infine nelle Lettere di San Paolo e nell’Apocalisse.
Leggendo ognuna delle grandi voci, civiltà  diverse e opposte vengono alla luce: conosciamo cosa significassero fede, alleanza, grazia, peccato, sangue, anima, conversione, per uomini che vedevano il mondo in modo profondamente dissimile. Conosciamo cosa pensava un greco del Quinto secolo, un ebreo provvisto di cultura greca e un allievo di san Paolo. Tutto è contrasto, opposizione, rovesciamento — salvo improvvise coincidenze.

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