E l’incognita lombarda accentua lo scontro tra il premier e Bersani

by Sergio Segio | 24 Gennaio 2013 8:55

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E probabilmente la gamma degli attriti si allargherà . Ma il vero punto di rottura fra il presidente del Consiglio e il suo principale contendente a palazzo Chigi è molto più localizzato. Si concentra sulla Lombardia, la regione che il centrosinistra vuole conquistare come conferma e quasi sublimazione della sua probabile vittoria nazionale; e che invece teme vada all’«asse del Nord» a guida leghista perché Monti ha candidato Gabriele Albertini. E non tanto a livello di governatore: l’inquietudine nasce dalla prospettiva che la distribuzione dei seggi faccia saltare al Senato la maggioranza Pd-Sel, e renda difficile perfino una coalizione con i centristi.
La prospettiva rende Bersani nervoso e abrasivo nei confronti del premier, benché i montiani sostengano che Albertini toglierà  voti a Pdl e Carroccio. Perfino il Wall Street Journal, bibbia della comunità  d’affari statunitense, si è accorto che Berlusconi punta molte delle sue carte sulla regione per ottenere non la vittoria ma un Parlamento ingovernabile. Il problema è che l’incognita lombarda sta spargendo veleni sull’ipotetico patto postelettorale fra Bersani e Monti. Il centrodestra continua a martellare su una loro intesa. E inserisce anche la grave crisi al Monte dei Paschi di Siena, con le dimissioni dell’ex presidente, Giuseppe Mussari, dal vertice dell’Abi, come indizio di un «patto scellerato» fra Pd e premier per favorire le banche. Ma all’ombra di polemiche che la campagna elettorale estremizza, le distanze fra i potenziali alleati aumentano.
Bersani avverte Monti: «Non accetto di vedermi fare le pulci da chi non pronuncia nemmeno la parola “esodati”, il fenomeno che ha creato». Non solo: accomuna «il miliardario» Berlusconi e i «tecnici e gli illuminati» alla Monti, definendoli incapaci di «avere orecchio alla grande questione sociale»; e accreditando «l’unico partito popolare che è il Pd». Fa notare al premier che nell’anno e più che hanno governato insieme anche a Pdl e Udc, palazzo Chigi non sembrava così critico nei confronti del Pd.
Così, gli dà  atto che lo spread (la differenza fra gli interessi sui titoli di Stato italiani e tedeschi) si è abbassato. Ma attacca Monti sulla disoccupazione record e la crisi. E fa proprie le parole del presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che ieri ha lamentato l’«emergenza economica e sociale». Ritenere che divergenze così profonde, e a un mese dalle elezioni, possano essere riassorbite dopo il voto del 24 e 25 febbraio è possibile, ma non probabile. Quando il capo del governo arriva a sostenere davanti alla platea del summit svizzero di Davos di condividere le perplessità  di un populista come Beppe Grillo su un’Italia governata dalle coalizioni di Berlusconi o di Bersani, inserisce un altro cuneo; e in un consesso internazionale già  diffidente nei confronti della sinistra italiana.
Naturalmente, Monti non tralascia di attaccare Berlusconi. Sostiene di avere presentato una lista elettorale per difendere «le vittime di governi e di politici che si sono impegnati in promesse irrealizzabili, e «hanno aggravato la crisi», alimentando «il nazionalismo e il populismo». E Angelino Alfano, segretario del Pdl, lo rimbecca subito sostenendo che il premier ha perduto la fiducia perfino della stampa internazionale. Cita in proposito un recente articolo del Financial Times, poi bilanciato da un commento favorevole a Monti del quotidiano londinese. Ma è soprattutto lo scontro con Bersani a colpire. Per essere un gioco delle parti fra premier e Pd, sta diventando un po’ troppo ruvido. Cresce il sospetto di una legislatura più breve dell’attuale. Anzi, l’impressione è che certi toni nascano dalla convinzione trasversale di una precarietà  destinata a proiettarsi oltre le elezioni.

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