by Sergio Segio | 13 Gennaio 2013 9:11
I Della discussione tra pubblici ministeri e avvocati sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia non ha perso una battuta. Ha seguito tutta l’udienza preliminare, in videoconferenza dalla saletta del carcere milanese di Opera. In silenzio, lasciando parlare i suoi avvocati che tentavano di tirarlo fuori dall’ennesimo processo. Un processo particolare, rispetto ai tanti altri. Unico. Perché al suo fianco, alla sbarra, Salvatore Riina da Corleone non ha solo boss e gregari com’era sempre successo, ma anche rappresentanti dello Stato. Ex ministri, uomini-cerniera, carabinieri. Il suo nome, nell’elenco alfabetico degli imputati, figura tra gli ex generali Mori e Subranni, i vertici investigativi dell’Arma che l’arrestarono il 15 gennaio 1993. Vent’anni fa. E lui, il «capo dei capi» di Cosa nostra, pluricondannato per omicidi e stragi, compare nella doppia veste di ricattatore e moneta di scambio, prima soggetto o poi oggetto del patto segreto tra un pezzo delle istituzioni e un pezzo della mafia.
Fra gli ex politici rimasti incagliati in questa vicenda giudiziaria c’è pure Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza su alcuni momenti-chiave di quella tormentata stagione di mafia e antimafia. Lo stesso Mancino che Riina ha sempre considerato al corrente della trama che portò alla sua cattura. Da quando lesse sul Giornale di Sicilia una dichiarazione del ministro che prometteva l’arresto in tempi brevi. «C’è stato qualcuno che mi ha venduto — ha detto ai pubblici ministeri di Caltanissetta nel 2009 —, e non è certo Di Maggio (il pentito che lo indicò ai carabinieri il giorno dell’operazione, ndr). Mancino sapeva che sarei stato catturato, e dunque era parte di questa trattativa per il mio arresto».
Ecco, la tanto contestata parola — trattativa — torna nell’interrogatorio del capomafia. Lo stesso in cui assicura di non aver mai avuto contatti con nessun apparato o personaggio strano: «Nella mia vita non ho mai trattato gente che potessero essere al di fuori di pensarla come me». L’ex ministro dell’Interno sostiene di non aver predetto né saputo nulla, ma solo di aver auspicato che il più sanguinario degli «uomini d’onore» finisse in galera al più presto. Riina invece si sente vittima di un complotto. E intorno alla sua cattura, con la mancata perquisizione del covo e tutti i misteri che gli sono spuntati intorno, le ombre non si sono diradate. Nonostante un processo conclusosi con l’assoluzione dei carabinieri. Vent’anni di sospetti che ora entrano nel processo sulla trattativa, e vent’anni ininterrotti di «41 bis» per il «capo dei capi», che a novembre ne ha compiuti 82 d’età . Un regime di carcere duro dalla durata quasi record, scontato prima all’Asinara, poi ad Ascoli Piceno e dal 2003 a Opera, dov’è più agevole tenere sotto controllo una salute vacillante dopo l’operazione subita a seguito di un infarto.
Trascorsi i primi otto anni in isolamento totale, nel 2001 gli misero un compagno di detenzione per effettuare la cosiddetta «socialità »: vari detenuti appartenenti ad organizzazioni criminali diverse dalla mafia, di medio o piccolo spessore, si sono alternati per tenere compagnia allo «zio Totò». L’ultimo è stato un pugliese, legato alla Sacra corona unita. Fino al dicembre scorso, quando è sopraggiunto un nuovo ordine d’isolamento a seguito di un’altra condanna divenuta definitiva. Riina non l’ha preso bene, ha inveito e s’è quasi scagliato contro gli agenti che gli hanno notificato il provvedimento, al punto di guadagnarsi una denuncia per minaccia aggravata. Un procedimento penale in più per lui che ha collezionato già tanti ergastoli e aveva trascorso l’ultimo decennio di detenzione in sostanziale tranquillità , secondo le rigide regole del «41 bis».
Un colloquio al mese attraverso il vetro blindato e il citofono, di un’ora soltanto, a turno con la moglie, la figlia, la sorella, il nipote e il genero. Tutti audio e video-registrati. Se non possono venire sono concesse telefonate per la stessa durata complessiva, ma qualcuno si presenta sempre. Dall’esterno il boss può ricevere oggetti, vestiti e generi alimentari (tutti rigorosamente controllati prima dell’ingresso in carcere) per un totale di dieci chili di peso. Può uscire dalla cella, dove è sempre video-ripreso, non più di due ore al giorno. Le lettere che scrive e riceve sono controllate dalla censura. Per il vitto in più rispetto a quello dell’amministrazione e ogni altra esigenza consentita può utilizzare fino a 200 euro a settimana, più 25 per la corrispondenza. Soldi suoi, ovviamente. Ma Totò Riina spende molto meno. Si fa bastare quel che passa il carcere. Compra La Gazzetta dello Sport, prima anche il Giornale di Sicilia, ma adesso la stampa locale è vietata. Ogni tanto il Corriere della sera.
Un tempo, tra coloro che andavano a fargli visita, c’era anche il figlio Giovanni. Ma da quando è stato arrestato, condannato all’ergastolo e sottoposto anch’egli al «41 bis», si sono incontrati soltanto due volte. Nel 2010 e nel 2011. Il resoconto della registrazione del primo colloquio è finito agli atti della nuova inchiesta sulla strage di via D’Amelio. «Quando hai una possibilità , se la sai sfruttare — disse quel giorno il capo della mafia a suo figlio — l’ultima parola non la dici, te la tieni per te e puoi fare tutto su quell’ultima parola. Gli altri non sanno niente e tu sei anche un po’ avvantaggiatello. Questa è la vita, a papà , purtroppo ci vogliono sacrifici… Ho avuto la fortuna, la sfortuna di trovarmi lì e sono andato avanti. Certamente… sì. Non è da tutti, eh?».
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