Casini il «mediatore»: dialogo con Bersani per siglare l’armistizio

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ROMA — In campagna elettorale, si sa, menarsi fendenti di santa ragione è fisiologico, e prescinde dai rapporti politici esistenti. Per questo può succedere che nei giorni in cui la polemica giunge alle vette più alte, i protagonisti della competizione, benché avversari, si parlino. Se non altro perché si conoscono da una vita. Come Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini.
In campagna elettorale, si sa, la polemica è la norma, ma se si depone il fioretto e non si risparmiano i colpi contro il competitore si può anche arrivare a un punto di non ritorno. È esattamente questo il quadro in cui si gioca la partita tra il Pd e Monti.
Bersani non aveva intenzione alcuna di infilzare il presidente del Consiglio con un colpo a sorpresa: «Gli replicherò solo se insiste, altrimenti parlerò di quello che interessa al Paese». Però, adesso che il confronto televisivo si avvicina (sarà  a febbraio, con tutti i candidati premier, da Monti al segretario del Pd, a Berlusconi, passando per Ingroia, Grillo e Giannino), Bersani minaccia di rispondere pan per focaccia se l’inquilino di palazzo Chigi proseguirà  nei suoi attacchi.
Il presidente del Consiglio ogni volta che incontra un esponente del Pd non nega mai la frase di rito: «Dopo le elezioni ci parleremo, ci vedremo». Nel frattempo però sembra aver imbracciato la katana di Uma Thurman in «Kill Bill». La super spada dei samurai, per intendersi. Ed è per questo motivo che, nel pieno degli insulti e delle accuse della campagna elettorale, Bersani e Casini si sono parlati. Sono entrambi due politici di lungo corso: sanno che dopo la guerra si può anche siglare un armistizio, ma sanno anche che se si va troppo là  poi arretrare è più difficile. Il segretario del Pd ritiene che se l’intenzione di Monti è quella di tirare troppo la corda si possa arrivare a un punto di non ritorno. E lo pensa anche Casini.
Bersani ha chiesto al leader dell’Udc il perché della «metamorfosi» del premier. Colpa del guru americano, è stata la risposta, che per far guadagnare al presidente del Consiglio i voti di Berlusconi (ma anche quelli di Bersani) ha suggerito la linea dell’aggressione. Però così dove si va, è stato l’interrogativo che hanno espresso entrambi. Da nessuna parte, è stata la risposta che si sono dati.
Il segretario del Pd non mente (non è suo costume né sua abitudine) quando afferma: «Noi rimaniamo aperti a una collaborazione con i moderati». Però dice la verità  anche quando avverte: «Siamo disponibili al dialogo, ma il testimone resterà  nelle nostre mani». Nel senso che, anche nel caso in cui la vittoria del centrosinistra si limiti alla Camera, con un pareggio al Senato, la guida del governo dovrà  andare ugualmente al candidato premier della coalizione vincente, ossia allo stesso Bersani. Casini è in campagna elettorale, ufficialmente dissente, ma da politico intelligente qual è sa che difficilmente potrà  essere diversamente.
Monti ne è conscio? Il numero uno del Pd sa che c’è chi vuole «una sua vittoria azzoppata», come si rende perfettamente conto che il successo a questo punto «non è scontato», però non è tipo da mollare come se niente fosse. E infatti il suo ruolino di marcia lo ha fissato da tempo: anche se si vince si deve collaborare con i moderati «perché il mito dell’autosufficienza» non esiste. Lo ha già  dimostrato Prodi nel 2006.
Ma collaborare non vuol dire necessariamente governare insieme. «Dipende dalle condizioni», è il ritornello del leader del Pd. Ossia se la vittoria del centrosinistra sarà  piena non ci sarà  un «do ut des»: nessun patto di governo con i centristi, piuttosto un patto istituzionale, per varare le riforme importanti, ratificato dall’assegnazione della presidenza di una delle due camere a un esponente del fronte moderato. Non solo. Anche il presidente della Repubblica verrà  scelto con il metodo della «condivisione» con il centro. Dopodiché potrebbe anche accadere che Bersani decida di inserire nel suo gabinetto un ministro espressione dei moderati (anzi, non è affatto escluso), ma questo non significherebbe siglare una nuova intesa di governo perché il segretario del Pd non vuole venire meno al patto sottoscritto con gli elettori abbandonando Vendola per il centro.
Ovviamente — e queste sono le «condizioni» da cui dipende ogni scelta come spiega Bersani — se al Senato il centrosinistra non avesse la maggioranza, allora l’alleanza di governo diventerebbe inevitabile. Ma anche — o proprio per questo — Monti deve mollare la corda, perché, avvertono al Pd, anche in questo caso la premiership deve andare a Bersani. Altrimenti? Altrimenti si può sempre «votare di nuovo».


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