Carlo Ossola. “Cari allievi, ricordatevi sempre che la verità  è nascosta nell’eresia”

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Via via che procediamo in questa nostra esplorazione, scopriamo quanto ampio sia lo spettro delle possibili declinazioni della parola “giudizio”. Con il nostro interlocutore odierno, il professor Carlo Ossola, insigne critico letterario e docente al Collège de France — un signore che all’insegnamento ha dedicato larghissima parte della sua vita — discuteremo proprio del rapporto maestro-allievo. Ovvero: su quali basi il primo sceglie, elegge, promuove il secondo?
Vexata quaestio, oggi ulteriormente ingarbugliata, giacché la scuola non si presenta più come centro indiscusso della formazione e della conoscenza individuale. E l’insegnante, di conseguenza, assiste impotente all’evanescenza della propria autorità .
Professore, partirei da un’annotazione di carattere linguistico. Giudicare, in questo nostro caso, non significa emettere una sentenza. Il vocabolario del giudizio qui si apre piuttosto alla critica: il giudice si fa critico, esercita la facoltà  di separare, scegliere, decidere.
«Aggiungerei un ulteriore elemento, che non si dà  in altri settori in cui pure si esercitano il giudizio e la critica. In un’aula scolastica, l’insegnante non ha di fronte un libro chiuso, o un fatto compiuto e irrevocabile, ma un essere vivente in continua evoluzione. Quindi, prima ancora che emettere una valutazione, qui si tratta, socraticamente, di riuscire a far emergere le motivazioni dello studente, le ragioni per le quali sta seguendo un percorso. Il maestro è lì per individuare assieme allo studente i tanti crocevia, per aiutarlo a spianare la strada senza che si perda in inutili viottoli laterali. È un lavoro comune, insomma. Ed è giusto per questo che in quarant’anni di insegnamento ho sempre preferito la prova orale all’esame scritto. Perché non si tratta di perseguire un sistema oggettivo di incasellamento, ma di far emergere una personalità  attraverso il dialogo».
Il maestro dovrebbe accendere una passione, risvegliare una mente.
«Per dirla con George Steiner: “Nessuna passione è spenta”. Se il corso universitario è stato ben condotto, se le proposte di lettura sono state interessanti, lo studente avrà  avuto accesso a un ampio ventaglio di opzioni. E avrà  potuto trasformare il probabile in possibile. Per me l’esame finale rappresenta esattamente questo: trasformare un probabile in possibile. Perché nella foresta dei testi, lo studente trovi il proprio itinerario».
Nei miei ricordi scolastici, il principale obiettivo era, al contrario, quello di ripetere ciò che aveva detto l’insegnante.
«Più l’insegnante è bravo, meno si presenta questo rischio. Il mio professore di greco del liceo diceva: primo, esaminare; secondo, sceverare; terzo, soltanto terzo, decidere.
E badi bene, era uno che veniva dalla guerra partigiana. Ancora oggi quei tre verbi in successione rappresentano la mia bussola di orientamento nel rapporto docente-discente. Mettendo al primo posto l’obbligo dell’analisi, “provando e riprovando”, dimostro sì di essere esigente nei confronti dell’allievo, ma metto in questione anche me stesso. Perché sono disponibile ad accogliere tutte le sue domande e tutte le sue contestazioni.
Nel senso più bello del termine: “Chiamati a testimoniare con”, come dice Michel de Certeau. Se io riesco a chiamare lo studente a testimoniare attraverso la propria voce, vuol dire che il soggetto di cui gli sto parlando sta diventando effettivamente suo. Non conosco modo migliore per recuperare la perduta autorità  dell’insegnante».
Un insegnamento fondato sull’interrogazione e sul dubbio dovrebbe essere il miglior antidoto al dogmatismo.
«Quando ero studente universitario, seguivo i corsi di Raoul Manselli, storico del Medio Evo, che amava ripetere: ricordatevi che l’eresia rappresenta sovente la parte sconfitta della verità . Un’affermazione, per me, decisiva: si tratta non solo di sceverare il vero dal falso, ma di capire perché — nella storia — una certa posizione abbia vinto e un’altra perso. Non si deve offrire allo studente un blocco organico di verità , ma piuttosto lo si guida a procedere nel modo indicato da Einstein: siamo noi stessi parte del problema che stiamo affrontando. E nel trattarlo, ne usciamo modificati. Grazie anche alle risposte dello studente a cui ci rivolgiamo».
Il guaio è che secondo alcuni si è rotta la cinghia di trasmissione del sapere. E quanto interessava ai padri non interessa più ai figli. Su questo giornale ne ha scritto in modo dolente e puntuale lo scrittore e insegnante Marco Lodoli.
«Mi ricordo bene quell’articolo: un’analisi, dal punto di vista fattuale, difficilmente contestabile. Mi permetta tuttavia di parafrasare quel sonetto di Michelangelo che suggerisce: “Val meglio un lumino nella notte che una fiaccola di giorno”. Ecco, è da lì che bisogna ripartire. Siamo cresciuti in un contesto innestato sulla cultura umanistica: basti pensare al ruolo pubblico rivestito da figure come De Sanctis, Gobetti, Gramsci. E dagli stessi padri costituenti. Tutto questo oggi non c’è più. Ma perduta la sua centralità  catalizzatrice, la cultura umanistica deve comunque rivendicare la sua funzione critica. A maggior ragione in
una realtà  sempre più segnata da scienze applicative e tecnologiche; una realtà  in cui il problema principale sembra essere quello di allargare con nuove corsie le autostrade informatiche, mentre non si verifica se i Tir che vi sfrecciano sono pieni di contenuti, di versioni di mondi possibili, o vuoti o ingombri solo del loro “rumore”».
Ma come riuscire a farlo, se è vero, per dirla ancora con Steiner, che viviamo nella civiltà  del “dopo-parola”?
«Bisogna partire dalle nostre specifiche responsabilità . Nel percorso scolastico siamo passati da una cultura del debito, fondata sull’idea che siamo sempre inadempienti rispetto al compito che ci eravamo dati, a una cultura del credito: i ragazzi acquistano crediti e noi li eroghiamo. Peccato che si tratti di crediti ipotetici, fittizi, che non vengono mai riscossi, finendo per alimentare nello studente un senso di frustrazione, di inganno, di irrealtà . La scuola in generale, e l’università  in particolare, non è stata abbastanza severa con se stessa. Non esigente con sé e con gli studenti, ha indotto un lassismo di cui ora paga le conseguenze. L’orizzonte dell’insegnamento universitario è rimasto schiacciato sul presente, limitandosi a offrire descrizioni, comunicazioni, piuttosto che a porre domande di fondo. Quando invece sarebbe più che mai necessario pronunciare parole che si protendano “a nord del futuro”, come diceva Paul Celan. Perché non basta descrivere il mondo, bisogna anche saperlo varcare. Secondo elemento. Nella civiltà  dei flussi, si corrono gravi rischi di rottura del pack su cui riversiamo la piena del dire. Ma il primo compito dell’insegnante non è proprio quello di circoscrivere la frase, di studiare i passi, di ristabilire sintassi e gerarchie di senso? Oggi più che mai c’è bisogno di limpidezza e sobrietà  nella prosa, mentre troppo spesso, anche all’interno dell’accademia, prevalgono inutili espressionismi e compiacimenti di un dire senza oggetto».
L’altra grande e terribile novità  dei nostri tempi è la progressiva scomparsa dell’uso della memoria. Imparare a memoria non è più un esercizio richiesto.
«Ho iniziato la mia carriera a Ginevra, quando era ancora vivissima l’eredità  di Jean Piaget, che aveva molto scommesso sui primi anni di vita, quelli dell’infanzia. Bisognerebbe strapagare i maestri, diceva, perché è lì, all’asilo e durante la scuola elementare, che si gioca l’essenziale della partita. Aveva ragione. Non esercitando la memoria, buttiamo via un dono prezioso. Non è soltanto lacuna dell’oggi, legata all’avvento del digitale: già  nel ’68, sciaguratamente, si combatteva il presupposto uso “autoritario” della memoria. Credo che oggi questa sia, in assoluto, la sfida più importante dell’insegnamento: bisogna riattivare quell’esercizio, arrestare l’irresistibile processo di delega mentale rappresentato dal mondo delle risorse Web. Come farlo? Scovando dei testi talmente belli, talmente pieni di domande decisive, da costringere lo studente a mandarli a memoria. In tal senso la poesia ha un grande compito, perché un verso non lo si può storpiare. C’è una bella differenza tra il sentenziare: “Stiamo come le foglie d’autunno sugli alberi” e l’indugiare sospeso “Si sta come / d’autunno / sugli alberi le foglie”».
Professore, non è che stiamo un po’ fantasticando? Sta franando tutto, e noi pensiamo che si possa ripartire da un verso di Ungaretti?
«Si ricorda Fahrenheit 451 di Bradbury- Truffaut? Noi oggi siamo come quei rifugiati ai quali è stato dato il compito di ripetere il verso appreso a memoria, uno per uno, in modo che la piccola comunità  sopravvissuta possa alla fine ricostruire per intero il poemetto andato distrutto. Credo che sia proprio questa coscienza della fine, a darci la forza per combattere la nostra battaglia. Certo, potremmo anche uscirne sconfitti. Ma non bisogna mai negoziare troppo con il presente».


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