2011 dopo Cristo, l’origine del primo sindacato straniero

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Un milione e settecentimila metri quadri di superficie complessiva, collocato in uno snodo centrale del traffico autostradale e ferroviario, collegato direttamente con il porto di Genova, sei aeroporti nel raggio di poche centinaia di chilometri, al suo interno operano i principali marchi globali e una folta schiera di imprese. Siamo nel polo logistico di Piacenza, crocevia dei flussi di merci in Europa, in particolare verso l’est e verso il sud del Mediterraneo. La sua posizione di fulcro degli scambi verrà  rafforzata dall’agognata costruzione del corridoio 5 da Kiev a Lisbona, il famigerato Tav. Bastano questi schematici accenni per comprendere che, essendo la logistica un ganglio vitale del capitalismo contemporaneo, qui siamo in uno dei suoi nodi strategici. I confini tra produzione e circolazione si sgretolano: è in questi «segreti laboratori» che il valore si moltiplica e circola.
Proprio qui, nel polo logistico piacentino, l’estate del 2011 è diventata bollente: i lavoratori delle cooperative della Tnt – come altrove, al 90% migranti – si sono rivoltati contro i salari da fame, i ritmi insopportabili, l’assenza di diritti, la rete di capi e spie usata per controlli e minacce. I sindacati erano assenti o, peggio, complici del padrone. Ne hanno cercato uno che si mettesse a disposizione dell’autorganizzazione dei lavoratori e l’hanno trovato nel S.I. Cobas, da allora riferimento in tutto il settore. I lavoratori hanno vinto, conquistando contratto, migliori condizioni di lavoro e – soprattutto – dignità . Dopo la TNT scioperi e picchetti si sono diffusi ad altre imprese: GLS, Bartolini, gruppo Antonio Ferrari. Insieme alle lotte nelle cooperative di Verona e dell’Esselunga di Pioltello, si collocano dentro quello che possiamo definire un vero e proprio ciclo di lotte dei lavoratori della logistica.
Proprio nella logistica il sistema delle cooperative si rivela per quello che è, una fabbrica della precarizzazione e luogo opaco dello sfruttamento; in Emilia Romagna, poi, costituisce un blocco di potere economico-politico, spesso sovrapposto e indistinguibile rispetto alla Cgil e al Pci-Pd. A giugno 2012 sono partite le lotte dei lavoratori del consorzio di cooperative Cgs del deposito Ikea di Piacenza, attivamente sostenute dal punto avanzato di organizzazione della Tnt. Anche qui le rivendicazioni centrali riguardano salari, ritmi, contratti aleatori (si entra come facchini e si diventa senza saperlo pulitori, con qualche euro in meno all’ora). Più tardi si scoprirà  addirittura che, tra straordinari non pagati, mancati indennizzi e fraudolenti conteggi delle ore, la Cgs ha sottratto a molti lavoratori dai 4.000 ai 6.000 euro all’anno. Tra ottobre e gennaio sono proseguiti il presidio permanente, gli scioperi, i blocchi dei nove ampi cancelli di quello che è il più grande deposito Ikea d’Europa. A fermare la lotta ci hanno provato a novembre con le manganellate, poi con denunce, multe e minacce; dapprima dodici e poi nove lavoratori sono stati sospesi. Niente da fare: la lotta si è anzi generalizzata con la parola d’ordine «reintegro di tutti subito». Sotto natale studenti e precari insieme ai facchini hanno chiuso per un intero pomeriggio il punto vendita Ikea di Bologna, resistendo alle ripetute cariche di polizia e carabinieri. #IkeaInLotta (questo l’hashtag su twitter) è divenuta la lotta di tutti.
Di fronte alla determinazione dei lavoratori e a questo processo di ricomposizione, è stato il padrone ad avere paura. In ognuno dei tanti blocchi a gatto selvaggio il danno è tanto e difficilmente misurabile, sia per le mancate consegne e i ritardi che mandano in tilt l’intera catena della circolazione, sia perché colpisce l’immagine, che oggi materialmente significa soldi e profitti. Il fragile just-in-time dello sfruttamento è stato rovesciato nel potente just-in-time dei conflitti. I capi di Ikea Italia hanno così ceduto, ora sono pronti al reintegro dei sospesi e accettano di discutere la piattaforma dei lavoratori.
L’insegnamento per i movimenti contro l’austerity è chiaro: vincere si può. Per farlo, bisogna uscire dall’isolamento e organizzare la forza per fare male al padrone, cioè smettere di avere paura e cominciare a fare paura.
(articolo e intervista sono realizzati all’interno del percorso di inchiesta militante di Radio UniNomade, che ha partecipato e raccontato lo sviluppo delle lotte all’Ikea)


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