by Sergio Segio | 12 Dicembre 2012 7:38
Terribili dovettero essere gli ultimi anni di vita di Walter Benjamin. In una sequenza di eventi negativi, tra il 1938 e il 1940, egli abitò a Parigi nell’isolamento e nell’estrema povertà . Le sue giornate trascorrevano alla Bibliothèque nationale, il solo luogo che gli garantiva la necessaria concentrazione per portare avanti il suo progetto. Lavorava alla stesura di un grande libro, tra le carte e i foglietti che maniacalmente appuntava. Poi la situazione precipitò. E fu come cadere rovinosamente da un precipizio. Nel giro di pochi mesi l’ebreo Benjamin intraprese una fuga che si concluse, come è noto, con il suicidio a Port-Bou, nel settembre del 1940, sul confine spagnolo. Si favoleggiò che insieme alle poche cose necessarie alla sopravvivenza Benjamin si trascinasse una valigia con il manoscritto al quale aveva febbrilmente lavorato. È molto probabile che quella valigia, che si disse fosse andata perduta, sia solo una leggenda. E che la verità sia un’altra. A raccontarcela è Giorgio Agamben che scoprì quelle carte, oggi finalmente pubblicate da Neri Pozza.
Come arrivò a quella scoperta?
«Casualmente. In quel periodo, la fine degli anni Settanta, stavo lavorando al ritrovamento delle ultime carte di Benjamin, compreso il famoso manoscritto dei Pariser Passagen che si riteneva fosse andato perduto. Quando un giorno, sfogliando delle lettere di Georges Bataille ne trovai una in cui Bataille, scrivendo a un amico conservatore alla Bibliothèque nationale, citava alcune buste contenenti dei manoscritti di Benjamin. In margine alla lettera c’era un’annotazione del conservatore che indicava la Bibliothèque nationale come il luogo in cui quei manoscritti si trovavano».
Cominciò così la caccia al tesoro?
«Fu una ricerca elettrizzante. Alla fine trovai i manoscritti in un armadio. Li aveva lasciati in deposito la vedova di Bataille. Da notare che la Bibliothèque non catalogava i lavori in deposito, per cui sarebbero potuti rimanere sepolti lì ancora per decenni».
Cosa esattamente ha trovato?
«Tutto quello che poi è diventato questo libro che sarebbe dovuto uscire nel 1996. Ma tormentate vicende editoriali ne impedirono la pubblicazione».
A cosa allude?
«Alla decisione allora della casa editrice Einaudi di non pubblicarlo. Mi chiesero delle cose assurde, per esempio di tagliare il libro perché l’edizione intera avrebbe danneggiato il volume sui Passagen. Sarebbe stato come chiedere a un dantista che scopre un nuovo manoscritto della Commedia di non pubblicarlo perché altrimenti avrebbe danneggiato le precedenti edizioni».
Passano quasi vent’anni. Nel frattempo scadono i diritti sulle opere di Benjamin e il libro finalmente vede la luce con il titolo Baudelaire, un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato. Perché è così importante e cosa lo differenzia dai Passagen che Einaudi ha pubblicato con il titolo Parigi, capitale del XIX?
«Benjamin, negli ultimi anni della sua vita, stava lavorando a un’opera fondamentale. E in un primo momento quest’opera sono i Passagen di Parigi che contengono un capitolo dedicato a Baudelaire. Man mano che va avanti, il capitolo cresce al punto da soppiantare il lavoro precedente. Per cui il “Baudelaire” da modello in miniatura diventa l’opera completa».
Ma allora il libro dei Passagen pubblicato da Einaudi che cosa è?
«È semplicemente il grande schedario organizzato da Benjamin. Tanto è vero che il curatore delle opere di Benjamin, R. Tiedemann, messo da me al corrente di questa scoperta, appose una nota nell’ultimo volume in cui dice che se avesse conosciuto prima questi materiali si sarebbe potuta fare un’edizione storico critica del libro su Baudelaire che avrebbe cambiato molte cose. Quindi questa che ho curato è la prima edizione mondiale. So che anche i tedeschi, sulla base del ritrovamento, ne faranno una».
Ma alla fine cosa aggiunge di sostanziale?
«Intanto, si entra con chiarezza nell’officina di Benjamin, nel suo modo di lavorare. Che non è affatto neutro. Quando decide di spostare l’attenzione su Baudelaire prende l’enorme schedario dei Passagen e lo riordina, lo mette per così dire in movimento. È come se il materiale fin lì raccolto venisse chiamato a nuova vita».
Si passa, lei scrive, dalla documentazione alla costruzione del testo.
«Che non è un passaggio inerte, passivo, esoterico. Ma un modo per tessere la connessione tra i suoi concetti fondamentali: “aura”, “allegoria”, “merce”, “prostituzione”, eccetera. Fino a ieri si pensava che le Tesi sul concetto della storia fossero l’ultimo lavoro di Benjamin. In realtà , quelle “Tesi” – come lui ci mostra – sono soltanto l’apparato teorico di una sezione del libro su Baudelaire. È chiaro che cambia la prospettiva. In un frammento annota: bisogna costruire l’oggetto come monade».
Un’affermazione enigmatica.
«Si riferisce alle monadi di Leibniz. Le quali è vero che non hanno finestre, ma non ce l’hanno in quanto esse stesse rappresentano l’universo. Lo contengono. Quindi, gli oggetti cui si riferisce Benjamin sono quelli dove già è riflessa la costruzione dell’intero».
Lavorare sul piccolo, sul trascurabile, per scoprire il grande. Era questo il suo principio micrologico?
«Sì. Lei dice “trascurabile” e questa parola rimanda all’altro principio che lo orienta: lavorare sugli stracci, sui rifiuti, sulle categorie secondarie e spesso nascoste. Non a caso sceglie i passages parigini che a quell’epoca, dal punto di vista architettonico, erano considerati un oggetto assurdo che non interessava a nessuno, salvo ai surrealisti che li riscoprivano come oggetto strano».
Benjamin insomma scende in un sottosuolo che quasi nessuno conosce.
«A un certo punto, per definire il proprio lavoro, Freud dice che se non potrà muovere gli dei muoverà l’acheronte, ossia l’inferno. Anche quello di Benjamin è un principio acherontico. Egli non indaga le grandi categorie, i grandi concetti su cui si sono soffermati gli storici della cultura, smuove gli inferi della Parigi del XIX secolo. Legge la storia a contropelo».
E Baudelaire è il “Virgilio” che lo condurrà nel suo inferno?
«Assolutamente. Per lui Baudelaire è il poeta che di colpo si accorge che tutto è cambiato, che ogni cosa ha a che fare con il mercato e la merce. È il teorico del moderno, ma il moderno è anche l’arcaico».
Sembra un modo di lavorare di altri tempi quello di Benjamin di annotare tutto su dei foglietti.
«Era una necessità . In quegli anni era talmente povero da non potersi neppure permettere di comprare la carta. Utilizzava qualunque foglio: dal rovescio delle lettere che gli spedivano ai blocchetti di carta della San Pellegrino che prendeva nei bar».
Come si manteneva?
«Con i pochi soldi che gli spedivano Adorno e l’Institut fà¼r Sozialforschung. Si angosciò quando seppe che glieli avrebbero ridotti».
Quanto furono fondamentali i rapporti con Adorno e Horkheimer?
«Meno di quanto si pensi. C’è un episodio rivelatore. Qualche anno fa uscì dagli archivi dell’università , a cui Benjamin si era rivolto per ottenere l’abilitazione, la scheda che motivava il rifiuto. Benjamin aveva presentato come lavoro Le origini del dramma barocco. Il professore che esaminò il testo confessò di non averci capito nulla, perciò chiese il parere del suo giovane assistente, che era Max Horkheimer, il quale redasse una nota – firmata – in cui bocciava Benjamin. Quell’atto cambiò radicalmente la sua vita. Non so se in bene o in male. Ma gliela rese durissima».
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