VICO, ANCORA LUI
Lo straordinario rilievo della Scienza Nuova di Vico – adesso ripubblicata da Bompiani in tutte le tre le edizioni del 1725, del 1730 e del 1744, a cura di Manuela Sanna e di Vincenzo Vitiello, con un ricchissimo saggio di quest’ultimo – sta nel fatto che per la prima volta, in essa, le vicende degli uomini sono guardate dal punto di vista della loro storicità . Naturalmente la nascita della storiografia è assai precedente – basti pensare, per esempio, a quella greca e romana. Ma è solo con Vico che la storia assume lo statuto di vera scienza. Così come il sapere acquista una dimensione intensamente storica – pur senza perdere la sua portata metafisica. Questo complesso passaggio di paradigma trova un singolare riscontro metaforico nella “dipintura” che compare sul frontespizio dell’opera. In essa un raggio di luce, che parte da un occhio situato in alto, giunge al petto di una fanciulla in piedi su di un globo, rifrangendosi su una statua. Ai piedi di questa, vari arnesi, tra cui una borsa, un timone, un aratro e una tavola con su scritte alcune lettere. In basso a destra s’intravede una selva, la cui folta vegetazione s’eleva fino al cielo, oscurando parzialmente la luce del sole. Il raggio è quello, divino, che illumina il mondo, transitando prima per la metafisica, simboleggiata dalla ragazza, e poi per la sapienza poetica, rappresentata dalla statua di Omero, mentre la selva incolta rimanda alle origini barbariche in cui le nazioni moderne affondano le proprie radici. Come spiega lo stesso Vico, il dipinto riproduce il duplice movimento, dall’alto al basso e viceversa, che salda la storia umana alla provvidenza divina. In un’opera mai del tutto conclusa, a dispetto delle tre edizioni, mito e storia, poesia e diritto, filologia e filosofia trovano una sintesi narrativa di straordinario vigore. Come in un grande affresco barocco, la storia del mondo – scandita nelle tre età degli dei, degli eroi e degli uomini – si dispiega in un’alternanza di luci e ombre, di successi e sconfitte, di slanci e cadute.
Le questioni che la Scienza Nuova solleva, ripercorse anche da Vitiello, sono fondamentalmente tre – intrecciate tra loro in un nodo insolubile. La prima riguarda il rapporto tra eternità e storia, tra origine e sviluppo. Come si è detto, è stato Vico ad immettere la vita degli uomini nella dimensione complessa e drammatica della storia – ma senza per questo fuoriuscire dall’orizzonte metafisico. Anzi, nell’intento di estendere alla storia il modello matematico adottato dalle scienze naturali, egli la sdoppia in due ordini distinti, ma in parte sovrapposti: quello “ideale eterno”, coincidente con il piano divino e quello in cui «corron in tempo le storie di tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini». Da qui la complessità , ma anche la tensione, che anima la scena vichiana: come si integrano, in essa, permanenza e mutamento senza annullarsi a vicenda? Come può restare identica a se stessa, la storia ideale eterna, se quella delle nazioni trascorre da una stagione barbarica a un’epoca civile, per poi, magari, regredire ad una fase ancora più buia? Ciò è possibile attraverso una sorta di topologia che vede riuniti tempi diversi all’interno della stessa dimensione temporale, come quando, durante le scoperte geografiche, gli europei si trovarono di fronte forme di civiltà eterogenee non solo nello spazio, ma anche sul piano dello sviluppo storico.
Ma se è così, l’altra questione affrontata, e genialmente risolta, da Vico è quella di dar voce al modo di sentire di tempi remotissimi. Egli è perfettamente consapevole del fatto che il senso originario dell’esperienza passata è perduto per sempre. Da qui la sua marcata distanza da autori moderni come Cartesio, che attribuivano al sapere a loro contemporaneo una sorta di validità universale. La scelta, apparentemente antiquata, in realtà nuovissima, di Vico – non per superare, ma per sottolineare tale difficoltà strutturale – è duplice: da un lato il tentativo di cercare in un’etimologia spesso fantastica la relazione originaria tra parole e cose. Le parole che ancora usiamo trovano la loro radice nei gesti, nelle immagini e perfino nei suoni di ciò che intendono significare. L’essenza comunicativa del linguaggio risiede nella sua figuratività – nella modalità concreta, gestuale e quasi corporea, con cui i primi uomini si sono rapportati in modo immediato alla vita. Il sapere non è un punto di luce che illumina all’improvviso il mondo, ma un processo avvolto nell’opacità del suo spessore storico. Perciò la sapienza poetica – basata sulla potenza delle immagini, anziché sulla generalità dei concetti – è più ampia di quella scientifica e filosofica. E anzi, come vuole indicare il riferimento ad Omero della dipintura, l’unica capace di esprimere il fondo preistorico custodito in ogni storia.
La terza questione – implicita nelle prime due – è il rapporto tra mente e corpo. Si è detto della genesi corporea del nostro modo di parlare. Ma il primato del corpo non riguarda soltanto il linguaggio. La storia stessa si origina dalla dimensione, confusa e promiscua, del corpo, come quello, sformato e bestiale, dei giganti che vagavano nella grande selva primordiale. In quell’alba del mondo, come si esprime con potenza visionaria Vico, le menti degli uomini «erano tutte immerse ne’ sensi, tutte rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite ne’ corpi». Chi voglia ripercorrere all’indietro il processo di ominazione, deve calarsi nella materia, oscura e ribollente, di quel fondo indistinto. Nella confusione di semi, di donne, di sangue da cui la vita ebbe inizio in un amalgama che sovrappone i corpi e mescola i loro umori, prima che si fissi la differenza tra gli individui e tra le specie. Perché qualcosa come un mondo umano abbia inizio, quella selva deve essere accecata dal bagliore del fulmine e poi bruciata dai primi eroi. Solo allora la forza diviene autorità e il comune si divide nel proprio. Solo allora si apre lo scenario della storia vera e propria. L’ordine nasce dal solco che l’aratro e la spada incidono nella superficie, prima indifferenziata, della terra. Da qui i regni, e poi le repubbliche, in cui la forza cede al diritto e l’autorità si coniuga con la libertà .
E tuttavia, tale processo di incivilimento non è mai definitivamente compiuto. Anzi, proprio quando si ritiene tale, rischia una brusca regressione in una barbarie ancora più profonda di quella da cui è emerso. Vico mantiene fortissimo il senso della fragilità delle cose umane. A ciò richiama la presenza della selva sullo sfondo della dipintura: al fatto che la luce del sole non può mai dissolvere del tutto le tenebre dell’origine. Proprio quando la ragione dispiegata pensa di potersi emancipare dagli impulsi del corpo, quando la civiltà si vuole del tutto immunizzare dalle ferite della comunità , rischia di inselvatichirsi di nuovo. È la prima compiuta teorizzazione di quell’eterogenesi dei fini che spesso indirizza il nostro agire lontano dagli esiti che intendevamo conseguire. Nessun autore moderno – magari più avanti di Vico sul terreno epistemologico – lo sopravanza in questa intuizione di bruciante attualità : la crisi non è una vertigine in cui la storia eccezionalmente precipita, ma una sua possibilità intrinseca. E anzi non di rado attivata proprio dagli strumenti adoperati per evitarla. Solo con tale consapevolezza si può tentare, faticosamente, di superarla.
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