Un’inchiesta di classe

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Scritti tutti a quattro o sei mani, i saggi qui proposti, tradotti da Stefano Visentin, offrono uno spaccato irrinunciabile per chi voglia guardare al capitalismo contemporaneo rifuggendo i confini statali e regionali, per immaginare invece di sfidarlo al suo stesso livello, quello globale e transnazionale. Il lettore italiano avrà  così modo di avvicinarsi a un mondo, quello della nuova classe operaia cinese, di cui ancora troppo poco si sa e si discute, nonostante il ruolo crescente del gigante asiatico nell’economia globale. In particolare, dagli studi di Pun Ngai emerge la capacità  di guardare allo sviluppo industriale cinese dal punto di vista operaio. È infatti costante l’attenzione della studiosa per i comportamenti soggettivi, le aspettative e i mutamenti d’immaginario prodotti dal combinato dell’azione statale, di quella capitalistica e di quelle collettive della classe operaia. Il libro, insieme ai dati di un processo epocale, riporta così alla luce una condizione umana, quella operaia, che, come rilevano in apertura i curatori, è in occidente «più rimossa che sconosciuta», ponendo una seria sfida a ogni ipotesi sulla fine della rilevanza politica ed economica del soggetto operaio. Abbiamo raggiunto Pun Ngai poco prima della sua partenza per l’Italia, dove sarà  per alcuni giorni per presentare il volume. La prima cosa che vorrei chiederti è qual è la situazione oggi nelle regioni industriali della Cina che hai studiato, e come reagisce quella parte di società  non direttamente coinvolta nello sviluppo industriale.
Gli scioperi e le azioni collettive sul lavoro si sono ormai diffuse in tutte le città  industriali del sud della Cina, e la maggior parte dei lavoratori migranti hanno partecipato in qualcuna di queste azioni durante il loro periodo di lavoro. In generale, la società  è favorevole e comprende queste azioni, una cosa riscontrabile anche nei servizi dei mass media che parlano di queste cose. La maggior parte della gente, tuttavia, non partecipa direttamente alle azioni portate avanti dai lavoratori. Nei tuoi studi leghi la crescita dell’insubordinazione operaia alla differenza di aspettative tra i lavoratori industriali dei primi anni delle riforme e una seconda generazione, composta soprattutto di operaie migranti, al tempo stesso attratta dalla fabbrica, come luogo di accesso alla città , ma meno disposta ad accettare le condizioni di lavoro imposte nell’industria. Quali sono i tratti salienti di questa differenza? Rispetto alle generazioni precedenti, la nuova generazione di lavoratori è più propensa all’azione e alla lotta per i propri diritti. Questo accade perché i giovani operai della nuova generazione sono attratti dalla vita in città , a causa della distanza crescente tra la vita rurale e quella urbana provocata da una rapida industrializzazione.
Questi giovani operai, inoltre, sono più istruiti, più critici e più desiderosi di lottare per affermare un proprio stile di vita e, dunque, non accettano di essere confinati all’interno del sistema della fabbrica, che offre loro soltanto un magro salario, insufficiente a sostenere la loro vita nelle città . Bisogna ricordare che questi giovani operai sono classificati dalle autorità  come «lavoratori rurali», e il salario che ricevono non basta alla loro riproduzione quotidiana nel luogo dove lavorano, costringendo molti di loro a tornare nei villaggi di campagna dai quali provengono. Eppure, a causa della mancanza di sviluppo, o del limitato sviluppo, delle comunità  rurali negli ultimi due decenni, non c’è per loro la possibilità  di tornare e fare affidamento sulla terra per la sussistenza, come accadeva invece alle generazioni precedenti. Nessun avanzamento, e nessuna possibilità  di ritirata, questo è il problema per la nuova generazione in questo secolo.
Questa distanza tra città  e campagna è un elemento ricorrente nella tua analisi, che si concentra molto sulle dinamiche di proletarizzazione legate all’industria urbana e sul ruolo che queste giocano nella formazione di una nuova classe operaia. Alle campagne si richiede solo di gestire la riproduzione e il ricambio della forza lavoro da impiegare nelle città  industriali, o sta cambiando anche il lavoro agricolo? La situazione è più complessa. Ad esempio, c’è una tendenza in atto che vede l’affidamento di vasti appezzamenti di terreno agricolo a grandi compagnie private, per periodi che vanno da trenta a settant’anni. Questo sta comportando la trasformazione di contadini di mezza età , o anche più adulti, prima impiegati soprattutto in attività  di sussistenza, in lavoratori salariati, impiegati nella produzione di colture da reddito di ortaggi, frutta e fiori destinati ai mercati. Oggi i flussi di capitale non coinvolgono solo le zone industriali, ma anche le campagne, e queste due dimensioni sono collegate. Come si comportano il governo e i sindacati tradizionali di fronte alla crescente insubordinazione operaia, ci sono altre parti in gioco nelle azioni portate avanti da questi operai? Sulla carta, il governo nazionale ha spesso adottato politiche a favore del lavoro, come la legge sul contratto e la legge sull’arbitrato, ma molte di queste leggi non sono poi seriamente implementate sul piano locale, dove gli interessi dei governi locali sono strettamente legati a quelli degli investitori privati. Così, fuori delle aziende di proprietà  dello Stato, sono presenti lavoratori sia interinali sia permanenti, ma nella maggior parte dei posti di lavoro nella manifattura, nelle costruzioni e nel settore dei servizi, i lavoratori sono tutti temporanei oppure interinali. I sindacati tradizionali, dal canto loro, non funzionano in modo efficace e non sono presenti, quando i lavoratori passano all’azione o avrebbero bisogno di un loro sostegno. I sindacati ufficiali sono assolutamente inefficaci, finché i conflitti sul lavoro non diventano problemi di «disordine sociale» e mettono a rischio la tenuta sociale. In queste situazioni, allora, il sindacato è posto sotto pressione per intervenire. Ad esempio, nel caso dello sciopero del 2010 all’Honda di Foshan, nel Guangzhou, la Guandong All-China Federation of Trade Union (il ramo locale dell’Acftu, il sindacato unico ufficiale cinese, n.d.r. ), è intervenuto nello sciopero, e ha aiutato i lavoratori a indire delle elezioni per organizzare un sindacato a livello di fabbrica. Dalla metà  degli anni novanta, poi, ci sono delle organizzazioni non governative emergenti, che si occupano di lavoro, soprattutto nello Shenzhen, nel Guangzhou e nella regione di Pechino. Queste organizzazioni non governative sono per la maggior parte delle organizzazioni di base, e hanno il sostegno dei lavoratori, occupandosi di diverse cose, dalle attività  culturali alla formazione rispetto ai diritti e alla sicurezza sul lavoro, fino alle strategie di organizzazione dei lavoratori. Nell’introduzione del libro vengono ricostruite le lotte che per oltre un anno hanno coinvolto la Maruti-Suzuki, in India, in una delle più importanti zone industriali del paese lungo il corridoio industriale Delhi Mumbai. Qui sembra che diverse lotte siano cresciute in modo incisivo, anche dal punto di vista economico. Vedi qualche somiglianza tra la situazione indiana e quella cinese? Mi sembra che dal punto di vista concettuale, e per quanto riguarda l’ambiente politico che li circonda, lo sviluppo delle Zone Economiche Speciali in Cina e del corridoio industriale in India siano abbastanza simili. Quello che cambia è il ruolo dei sindacati: in Cina, gli scioperi sono diffusi, ma hanno vita corta perché gli manca una base istituzionale per sostenere le azioni sul lavoro nel lungo periodo. Uno degli aspetti centrali della tua analisi è il ruolo della condizione migrante determinata in Cina dal sistema della residenza (hukou). Si tratta di una condizione, pur con diverse caratteristiche, comune a milioni di lavoratori anche in altre aree, come l’Europa. Pensi che le due situazioni si possano comparare in qualche modo? Sì, nel contesto del capitalismo globale, se guardiamo alle migrazioni e all’esclusione, la situazione in Cina e quella europea hanno molti punti in comune. Spesso sostengo la tesi di una doppia sussunzione del lavoro migrante: allo Stato e al capitale. Lo Stato crea una situazione di esclusione che rende più semplice lo sfruttamento.
Gli scioperi in Cina sono diventati una notizia globale soprattutto dopo aver coinvolto giganti come la Foxconn, strettamente legata a marchi molto noti come Apple. Sembra che convivano due orientamenti: da un lato, rimane l’idea che la Cina sia il buco nero dei diritti sul lavoro e la conoscenza di quello che accade è ancora limitata, dall’altro lato, si fa strada la consapevolezza che ciò che coinvolge i lavoratori in Cina ha una portata globale nel rapporto tra capitale e lavoro. Qual è la percezione che hanno gli operai cinesi di questa loro posizione nel capitalismo globale? Da un lato, gli operai cinesi si rendono conto di essere un ingranaggio della grande macchina della fabbrica globale, che ha il ruolo di produrre merci economiche o potenzialmente espansive per i consumatori globali. Dall’altro lato, capiscono che c’è un problema di ingiustizia economica nella sfera della produzione e della redistribuzione, perché quello che guadagnano è troppo poco, rispetto alla ricchezza che producono. Nella tua ricerca, emerge in modo netto il ruolo della ricerca accademica nella rimozione del problema politico della classe, in Occidente come in Cina. Ti sembra che qualcosa si stia muovendo da questo punto di vista? Io mi aspetto che tutti gli ambiti intellettuali (non necessariamente accademici), possano incrociarsi maggiormente con gli ambiti dei lavoratori, in modo tale che questi due protagonisti della nostra società  possano ricostruire un legame, e ripensare alla trasformazione del sistema capitalistico esistente. Sempre più studenti in Cina stanno imparando come si lavora e come si vive con i lavoratori, per esempio andando a lavorare nelle fabbriche durante le pause estive e invernali. Questi studenti, spesso, finiscono con lo scrivere bellissimi resoconti investigativi sul funzionamento delle fabbriche, e questi resoconti sono mandati alle aziende transnazionali e allo stato cinese, così da provocare una certa pressione per il miglioramento delle condizioni di lavoro degli operai. Un buon esempio è il Sacom («Studenti e Ricercatori contro le male condotte delle aziende»). Ogni anno, gli studenti inviano dei rapporti alle aziende, ampiamente riportati dai media internazionali, promuovendo così delle campagne nei confronti di Apple, Foxconn, Disney, HP, Walmart, e tanti altri.

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PUN NGAI

Le date e i luoghi delle presentazioni

Pun Ngai è da anni una figura eminente del movimento operaio cinese. Docente alla Hong Kong University of Science and Technology e vicedirettrice del Social Service Research Center di Pechino Cina ha conseguito il dottorato alla Soas di Londra, innestando nel ricco filone di studi sociali cinesi le tematiche elaborate dalla Social History fondata da Edward P. Thompson. Tra i suoi libri più significativi, «Made in China. Women Factory Workers in a Global Workplace» (Duke University Press), poi tradotto in tedesco e in polacco. Il suo nuovo volume in italiano,«Cina, la società  armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operaimigranti» affronta il tema delle lavoratrici e dei lavoratori migranti in Cina, alle cui condizioni di vita e di lavoro l’autrice ha dedicato larga parte dei suoi studi e inchieste sul campo. L’autrice è in questi giorni in Italia per alcune presentazioni. Ieri ha partecipato alla Facoltà  di Scienze Politiche di Padova ad un incontro con Angela Pascucci e Ferruccio Gambino; oggi (ore 18,30) a Milano, presso la Libreria Jaca Book (Via Frua 11) presenterà  il libro con Devi Sacchetto); il 14 dicembre (ore 11,00) alla Facoltà  di Scienze Politiche di Bologna (con Antonio Fiori, Sandro Mezzadra, Maurizio Ricciardi e Alessandro Russo); il 17 dicembre infine (ore 14,30) alla Facoltà  di Scienze Politiche di Urbino (con Alessandro Pandolfi, Stefano Visentin, Eduardo Barberis e Vincenzo Comito).


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