Una tassa che salva la speculazione

by Sergio Segio | 14 Dicembre 2012 5:42

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Che cos’è l’emendamento del governo al disegno di legge di Stabilità , che introduce un’italica versione della Tobin tax sulle transazioni finanziarie: la solita libbra di carne lanciata ai lupi per salvare la slitta o è l’inizio di un ordinato raffreddamento delle attività  speculative? Nel 2011, dice la Consob, in Borsa e in altri mercati regolamentati sono state effettuate transazioni azionarie per un controvalore di 830 miliardi. Al 30 giugno 2012, avverte la Banca d’Italia, erano in circolazione contratti derivati per un valore nozionale di 10.554 miliardi e un valore di mercato di 272 miliardi in positivo e di 270 in negativo. Ebbene, da questa enorme base imponibile, pari a 7 volte il Prodotto interno lordo, il governo si propone di estrarre un miliardo. Non è dunque alle porte la rivoluzione. Non si vedranno i cosacchi abbeverare i loro cavalli alle fontanelle delle banche italiane.
L’azione del governo Monti risponde ai richiami dell’Unione europea. La tassazione sulle transazioni finanziarie, in origine, aveva tre obiettivi: a) armonizzare le normative fiscali dei diversi Paesi in materia; b) rafforzare le entrate del bilancio europeo; c) penalizzare la finanza speculativa, che fa perno sui derivati, armi di distruzione di massa secondo Warren Buffett. La Commissione europea ha cercato di varare una direttiva. Ma il Regno Unito ha posto il veto, dicendo che alla City le compravendite di azioni sono già  da anni sottoposte alla Stamp duty reserve tax. Questa vecchia imposta non tocca la tecnofinanza, derivati in primis. Ma il veto inglese, affondando l’idea della direttiva Ue, ha declassato l’iniziativa della Commissione alla più blanda cooperazione rafforzata. Poi è stata la Francia a dare una picconata al proposito di versare la Tobin tax nel bilancio comunitario approvando una versione dell’imposta che lascia i proventi a Parigi. Quanto al contrasto della speculazione non si nota granché.
Sebbene sia guidata da un presidente socialista, che eleva al 75% l’aliquota fiscale sulla quota dei redditi personali superiore al milione, la Francia non ha previsto nulla sui derivati se non quando si pervenga alla consegna dell’azione sottostante. Ma i derivati su azioni sono poca cosa rispetto a quelli sui tassi e sui cambi. È probabile che il governo abbia subìto le pressioni di grandi banche come Bnp Paribas o Société Générale, ma è anche possibile che sia risultato più arduo del prevedibile distinguere tra i derivati di copertura, legati alla produzione, al finanziamento e al commercio di beni e servizi, e quelli speculativi, scommesse fini a sé stesse, allo scopo di non tassare i primi e bersagliare i secondi.
L’emendamento del governo italiano è chiaro sulle transazioni azionarie di Borsa: si pagherà  un’imposta dello 0,1%. L’emendamento colpisce meritoriamente con un’imposta dello 0,02% l’high frequency trading, ovvero le compravendite che scattano in continuità  secondo algoritmi per migliaia di volte al giorno e drogano il corso ordinario dei titoli. Nulla si prevede, invece, per le operazioni giornaliere sullo stesso titolo da parte dello stesso soggetto: si tasserà  solo il saldo finale della giornata. Se Borsa Italia ringrazia, il Paese non dovrebbe. Quanto ai derivati, il governo ha deciso di graduare il prelievo a seconda del valore nozionale dei contratti: l’imposta massima è di 20 euro o di 100 euro a seconda delle tipologie dei derivati oltre il milione di euro. Non volendo o non sapendo distinguere tra finanza buona e finanza cattiva, si è usata la mano leggera.
A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, si può pensare che, in questo modo, l’Italia si affianca alla Francia in attesa delle decisioni tedesche. Ma poi, se i numeri resteranno questi, sarà  d’obbligo concludere che la montagna ha partorito il topolino.

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