by Sergio Segio | 21 Dicembre 2012 12:56
I leader dei tre maggiori partiti del parlamento di Westminster, conservatori, laburisti e liberaldemocratici, devono cioè impegnarsi a indire un referendum, una volta che la nuova Unione Europea sarà emersa dalla crisi dell’Eurozona e saranno chiare le condizioni dell’adesione britannica, per stabilire se restar dentro o uscirne. Dato che con tutta probabilità l’Eurozona si salverà , ma solo con grande lentezza, a tappe, nello stile della Merkel, e dato che la posizione della Gran Bretagna si potrà chiarire solo una volta emerse le conseguenze politiche del salvataggio, il referendum si farà , stando alle proiezioni attuali, tra il 2015 e il 2020, durante il mandato del prossimo parlamento britannico.
Il premier David Cameron dovrebbe promettere il referendum nel tanto atteso discorso sull’Europa, ora fissato per metà gennaio. Se il leader dei laburisti, Ed Miliband, e il liberaldemocratico Nick Clegg avranno fegato lo bruceranno sul tempo, cavalcando la tigre delle istanze indipendentiste dell’Ukip. Tutti quanti i partiti potranno comunque fare riferimento alle approfondite analisi sulla “ripartizione delle competenze” tra Unione Europea e Regno Unito, condotte nell’ambito di vari dipartimenti governativi britannici, che saranno completate solo nel 2014 e fungeranno da base per il dialogo tra le due sponde della Manica. Esisterà allora una posizione nazionale ben definita. Noi cittadini britannici avremo la possibilità di prendere una decisione sulla permanenza nell’Unione solo quando sarà chiaro da cosa usciremo e in cosa resteremo. La questione è assolutamente prioritaria.
L’opinione pubblica britannica è favorevole al referendum. In un sondaggio YouGov di qualche tempo fa il 67% degli intervistati si è detto favorevole ad un “referendum sul rapporto tra Gran Bretagna ed Europa da tenersi a distanza di qualche anno”. Benché nella democrazia rappresentativa l’uso del referendum debba essere limitato, questo tipo di consultazione
è diventato parte integrante dell’evolversi della costituzione britannica. A quarant’anni di distanza dall’ultima consultazione diretta sul tema europeo, il referendum del 1975, è giusto dare ai britannici una nuova occasione perché l’Unione Europea di oggi ha una portata ben diversa rispetto al cosiddetto “mercato comune” di allora.
Indire un referendum prima del 2015, come insistono certi conservatori euroscettici, equivarrebbe ad una totale perdita di tempo e ad un ingente dispendio di denaro dei contribuenti. Non sapremo ancora quale sarà l’Unione Europea del dopo crisi e non si può “rinegoziare” la convivenza della Gran Bretagna in una casa sconosciuta, unifamiliare o bifamiliare che sia. “Rinegoziare” e “rimpatrio dei poteri” sono termini in voga tra gli euroscettici che il Labour e i liberaldemocratici probabilmente non vorranno usare. La verità però è che la Ue è permanentemente in negoziato, oggi più che mai. Inoltre
“rinegoziare” può significare in pratica qualunque cosa, da un minimo aggiustamento marginale (come dimostrò il premier laburista Harold Wilson prima del referendum del 1975 “rinegoziando” ai minimi termini) fino a un piano di completo distacco istituzionale, che ponga la Gran Bretagna sullo stesso fiordo della Norvegia (che non è Paese membro dell’Ue ma
deve ottemperare a gran parte dei regolamenti dell’Unione per poter accedere al mercato europeo).
Quindi i leader dei tre maggiori partiti britannici dovrebbero impegnarsi ad indire il referendum “dentro o fuori”, ma tutti e tre finora hanno cercato di svincolarsi. Perché? Cameron paventa ripercussioni negative sul suo mandato di premier e un effetto dirompente all’interno del suo partito. Miliband teme che il referendum proietti un’ombra sinistra sul suo governo se il Labour vincerà le elezioni del 2015. Clegg ha timore che faccia perdere al partito Liberaldemocratico anche i pochi voti che gli ultimi sondaggi gli attribuiscono. In breve, per usare un termine reso popolare da Margaret Thatcher, tutti sono “frit” (espressione dialettale per
frightened,
spaventati). Sembra una parodia in stile Monty Python della sparatoria finale de “Il buono, il brutto e il cattivo”. Tre ottimi tiratori che si fissano negli occhi sotto il sole cocente — solo che nella versione britannica piove, le pistole sono ad acqua e i tre segretamente non vedono l’ora di andarsene a bere una buona tazza di tè. Ma non possono, e non devono. È vero, l’Europa non rientra tra le massime priorità degli elettori britannici. La gente ha in mente i posti di lavoro, il costo del carburante, la scuola, gli ospedali, la criminalità , l’immigrazione.
Ma pensa anche all’Europa. Quando, se sarà , le cose andranno meglio in patria e i contorni dell’Ue post-crisi saranno più definiti, i cittadini vorranno essere consultati. Se tutti e tre i leader di partito, il Buono, il Brutto e il Cattivo — lascio a voi decidere come distribuire i ruoli — dovessero accordarsi in questo senso, può darsi che nei prossimi anni la questione europea perda addirittura importanza in Gran Bretagna.
Non sarebbe però un rimandare alle calende greche. In questo caso il domani è vicino, arriverà tra il 2015 e il 2020. Dopo più di quarant’anni avremo nuovamente la possibilità di condurre un dibattito serio sulla posizione della Gran Bretagna in Europa e nel mondo — ben diverso dalla guerra montata dai tabloid che abbiamo vissuto nei vent’anni successivi al trattato di Maastricht, difficile parto dell’allora primo ministro conservatore John Major. Sarà compito dell’attuale governo conservatore-liberaldemocratico e del governo successivo, qualunque sia il suo colore politico, porre le basi, collaborando per quanto possibile con i partner europei, al fine di ottenere l’accordo più vantaggioso per la Gran Bretagna. Tutto questo è fattibile, lo dimostra l’ottima decisione recentemente assunta sull’unione bancaria dell’eurozona. Nell’Ue c’è chi ci vedrebbe volentieri girare sui tacchi (come si dice in francese?) ma anche chi, e sono molti, non da ultimi i tedeschi e i polacchi, davvero auspica che restiamo.
La mia attività di saggista ed editorialista è da sempre legata alle tematiche europee e personalmente guardo con entusiasmo alla prospettiva di un grande dibattito referendario. Credo che saremo noi filoeuropei a vincere, anche se molti dei miei amici temono il contrario. Non penso che i britannici si siano fatti frastornare dai miti euroscettici spacciati dal
Sun
e dal
Daily Mail
al punto da decidere che uscire dall’Ue e ritrovarsi come la Norvegia, ma senza petrolio, o la Svizzera, sia l’opzione migliore per questo Paese. E se invece vinceranno gli euroscettici? Beh, sarà un errore storico, ma lo avrà voluto il popolo. Sono un sostenitore del progetto europeo, ma ancor più credo nella democrazia. Forza allora, votiamo, e vinca la logica migliore.
Traduzione di Emilia Benghi
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