Ultima opportunità  per dare vita a due Stati sicuri e indipendenti

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La ripartizione del 1947 fu accolta con gioia dagli ebrei di tutto il mondo e rifiutata dal mondo arabo, che considerava la Palestina come una terra propria ed esclusiva. Seguì una guerra, cominciata il giorno dopo la dichiarazione d’indipendenza dello Stato d’Israele, il 14 maggio del 1948. Il 29 novembre 2012, esattamente 65 anni dopo, i palestinesi hanno chiesto e ottenuto a grande maggioranza il riconoscimento dello status di «Stato osservatore» presso le Nazioni Unite. Questi sono semplicemente i fatti. Un’interpretazione potrebbe essere: hanno avuto bisogno di 65 anni per rendersi conto che Israele è divenuta una realtà  innegabile e sono dunque pronti ad accettare il principio della ripartizione del territorio palestinese rifiutato nel 1947? In questo senso diventa chiaro che la decisione presa ieri dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite deve essere un motivo di soddisfazione anche per lo Stato d’Israele. Non voglio dare lezioni di morale o di strategia politica né agli israeliani né ai palestinesi; però desidero ricordare che se questo conflitto non è stato risolto per molti anni, è forse perché né gli uni né gli altri e nemmeno il resto del mondo, ne hanno colto l’essenza profonda. Il conflitto israelo-palestinese non è un’ostilità  politica tra due Stati che si possa risolvere con mezzi diplomatici o militari: un dissidio politico tra due nazioni può riguardare problematiche relative ai confini, al controllo dell’acqua, del petrolio o casi simili. Questo è prima di tutto un conflitto umano tra due popoli che sono profondamente convinti di avere entrambi il diritto di vivere nello stesso piccolo territorio e preferibilmente in maniera esclusiva. È ora, anche se tardi, di riconoscere il fatto che israeliani e palestinesi hanno la possibilità  di vivere o insieme, o uno accanto all’altro, ma non negandosi. La decisione presa ieri da 138 Paesi è forse l’ultima opportunità  per dare vita al progetto di due Stati indipendenti, sicuri, ognuno con un proprio territorio continuo e non frammentato. Forse è il destino o la giustizia del tempo che dà  oggi ai palestinesi la possibilità  di iniziare un processo verso l’indipendenza in maniera identica a quelli che furono gli esordi dello Stato israeliano. È il momento giusto anche per le riconciliazioni interne, essenziali per risolvere la situazione, a partire da quella tra Hamas e Fatah, riconciliazioni necessarie per avere un’unica posizione e direzione politica. D’altra parte è un errore pensare, come spesso accade, che sia meglio avere di fronte a sé un nemico diviso; per questo, anche per Israele è meglio che i palestinesi siano politicamente uniti. Sono altresì cosciente che i palestinesi non accetteranno mai una soluzione ideologica al conflitto, perché la loro storia è diversa e dovrebbe essere lo Stato d’Israele a cercare una soluzione pragmatica. Credo infine che gli ebrei abbiano un diritto storico-religioso di vivere nella regione ma non in forma esclusiva. Dopo la crudeltà  europea verso il popolo ebraico nel ventesimo secolo ci sarebbe la necessità  di aiutarlo ora con i suoi problemi per il futuro e non solo riconoscendo le responsabilità  del passato. Sono commosso dalla quantità  di nazioni che hanno votato a favore della risoluzione; mentre mi rattrista la posizione assunta dal governo israeliano, che mi sembra poco lungimirante nel non cogliere le opportunità  che si offrono per un futuro migliore, e degli Stati Uniti, l’unico Paese in grado di far pesare la propria influenza. Mi riempie di felicità  che l’Italia, dove trascorro diversi mesi l’anno in qualità  di Direttore Musicale del Teatro alla Scala, abbia votato a favore di una speranza per tutti i popoli della regione.


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