by Sergio Segio | 19 Dicembre 2012 7:55
“Scroogled”, cioè fottuti da Google, proclama il sito da Microsoft, accusando i rivali di confondere pubblicità e informazione. Per la compagnia cresciuta conloslogan“Don’tbeevil”,nonesserecattivo, è un vero schiaffo in faccia. Eppure, l’ennesima scaramuccia fra maschi alfa nel branco dei leader dell’informatica, oggi, è solo una scena di contorno. Il duello vero, stavolta, è altrove e chiama in causa governi, istituzioni, parlamenti, consumatori e, un po’, anche le nostre illusioni di adepti del web. Perché in ballo c’è l’anima dell’utopia della Rete. Il terreno dove Google si confronta con sospetti e accuse, infatti, è il nuovissimo etere informatico, ma la materia è antica. John Rockefeller, la Standard Oil e il capitalismo di rapina di fine ‘800 ci si sarebbero trovati perfettamente a loro agio: sfruttamento di risorse altrui, abuso di posizione dominante, occupazione forzosa di territori, guerra di corsa con il fisco. Sono capi d’accusa a cui Google reagisce con veemenza.
Veri o no che siano, però, sono pesanti e illustrano la parabola di quelli che, una volta, erano i missionari di Silicon Valley: da start-up miracolo ad aziendaboom, da strumento geniale a presenza universalmente necessaria su qualsiasi computer. Fino a diventare titolari di quella che a molti appare, per ora, l’unica miniera d’oro del web: la pubblicità . Dalle celebrazioni e dai ringraziamenti si è così arrivati ai sospetti e alle accuse. Negli Usa, in Germania, in Francia, in Italia, in Brasile, in Gran Bretagna. A Mountain View devono pensare ad un assedio: il mondo contro Google. Perché alcune di quelle accuse, come quelle sul fisco disinvolto, toccano altre multinazionali, da Amazon ad Apple a Starbucks. Ma solo nel caso di Google i diversi duelli in corso toccano anche il cuore stesso del business, le leve fondamentali dei profitti.
Oltre il 90 per cento dei 50 miliardi di dollari che Google ha incassato quest’anno viene dalla gestione della pubblicità . Detto in termini più espliciti, i 45 miliardi di dollari arrivano dalla capacità di monetizzare i risultati delle ricerche che qualche miliardo di utenti fa sul proprio computer. Perché Google si trova nella posizione eccezionale di guardiano della porta del web, l’unico o quasi che ha la chiave per aprirla. I due terzi delle ricerche sul web negli Usa, ma ben il 90 per cento in Europa avvengono attraverso gli algoritmi di Mountain View: sono loro a decidere cosa la stragrande maggioranza degli utenti troverà in rete e in quale ordine. E, di fianco a quei risultati, Google è in grado di mostrare annunci pubblicitari specificamente collegati. State facendo una ricerca sulle origine del mito di Minosse? Bene, ecco gli annunci sui soggiorni turistici a Creta. Tutto qui? Non esattamente. La campagna appena lanciata da Microsoft al grido di “Scroogled!” attacca specificamente Google Shopping, il sito di e-commerce del gigante californiano, dove gli annunci che appaiono, se voi digitate, ad esempio, la parola “bicicletta”, sono esclusivamente annunci pubblicitari a pagamento. Google ribatte che la cosa è apertamente dichiarata e che riguarda solo il sito di e-commerce. Per tutto il resto, valgono rigorosamente i risultati, assolutamente neutrali, delle formule matematiche dell’algoritmo, senza favori per nessuno. O, invece, sì? Dell’algoritmo di Google si sa assai poco e cambia anche, inevitabilmente, abbastanza spesso. Ma c’è chi dubita della sua neutralità . Nessun utente sano di mente arriverà mai oltre pagina 3 di una ricerca su Google e la graduatoria con cui escono i link è, dunque, cruciale. Il sospetto è che il motore sia taroccato e, nelle graduatorie, finisca per favorire sistematicamente i collegamenti a servizi dello stesso Google: si tratti di Gmail o di Google Maps o, soprattutto, di Google Product Search, con i suoi bilancini di confronto prezzi.
Il problema, per Google, è che dubbi e sospetti sulla purezza dell’algoritmo hanno raggiunto anche i custodi della concorrenza, dalle due parti dell’Atlantico. La Federal Trade Commission, da una parte, la Commissione europea, dall’altra, hanno lanciato due indagini antitrust parallele su Google, per abuso di posizione dominante. Mountain View ha, per ora, tamponato il pericolo e giungerà , probabilmente, ad un accordo. Ma il dossier-concorrenza, ormai, è aperto e Google rischia, prima o poi, un esame indiscreto sui suoi algoritmi e sui loro meccanismi. Lo Spiegel ha recentemente documentato alcuni casi singolari che si verificano su Google Maps, da quando l’azienda californiana ha raggiunto un accordo con la compagnia ferroviaria nazionale tedesca, Deutsche Bahn, per offrire, con le mappe, anche percorsi ferroviari. Se, ad esempio, volete viaggiare da Cottbus a Goerlitz, nell’est del paese, vi sentite offrire un lungo tour, con cambio di treno in una stazione polacca, per un totale di 4 ore 32 minuti. Non una parola – a quel 90 per cento di internauti che si rivolge a Google – sul fatto che, servendosi di un concorrente privato di Deutsche Bahn, lo stesso tragitto può essere percorso in un’ora, senza scendere mai dal vagone.
Le indagini sull’abuso di posizione dominante e su supposte manipolazioni alla neutralità dell’algoritmo di ricerca sono, probabilmente, le insidie più velenose che Google ha di fronte, perché ne corrodono il brand e l’immagine. Ma non sono le uniche. Un altro attacco internazionale al ruolo dominante del motore di ricerca di Larry Page e Sergei Brin viene dagli editori dei giornali. Ai quali, disperatamente a caccia di introiti, non piace affatto che Google News, insieme ai link agli articoli più importanti, pubblichi anche – gratis – brevi riassunti dei contenuti dell’articolo. In Brasile, per protesta, gli editori hanno abbandonato in massa il motore di ricerca, negandogli i propri articoli. In Germania e in Francia, invece, hanno investito politici e governi della difesa del diritto d’autore. Il risultato è che il braccio di ferro fra chi difende la libertà e la completezza di informazione della rete e chi rivendica il pagamento dei contenuti, pena la sparizione degli stessi, verrà , probabilmente, regolato per legge. Berlino (seguita a ruota da Parigi) si prepara a stabilire che Google News non potrà postare collegamenti agli articoli, a meno di non versare un compenso agli editori. Sotto pressione, nei giorni scorsi, in Belgio, Google è venuta a patti con i proprietari dei giornali.
Ma è un intero modello che arriva in discussione: Google ne è l’esempio più vistoso, anche perché è l’azienda che meglio l’ha plasmato secondo i propri interessi. Tuttavia, i guai di Google non sono legati solo al travaglio della nascita del mondo digitale. Ci sono anche crucci più ordinari, anche se, non per questo, meno pesanti, come quelli con il fisco. Qui, Google è in buona compagnia con altre multinazionali, ma rischia di diventare il simbolo del problema: il mistero miracoloso di come, su un fatturato miliardario, sia possibile pagare pochi spiccioli, senza frodare nessuna legge. Negli Usa, Google paga il 21 per cento di tasse sui propri redditi, in Europa più o meno lo 0,2 per cento: poco più di 20 milioni di euro su un fatturato di 12,5 miliardi di euro. Come è possibile? Nel caso di Google, l’operazione di sparizione del reddito tassabile avviene in due fasi. La prima si svolge a livello nazionale. Google Italia, ufficialmente, si occupa solo di marketing e qualsiasi soldo gli arriva in cassa viene rapidamente girato alla sua controllante irlandese. Ma la Finanza non ci sta. Secondo le Fiamme Gialle, quei soldi, infatti, sono frutto di vendita di pubblicità ad utenti italiani, su suolo italiano, da parte di operatori Google italiani: va dunque tassata. La Finanza calcola che, solo fino al 2006 (prima cioè del boom del business di Google) la società abbia nascosto reddito tassabile per 260 milioni di euro ed evaso Iva per 96 milioni di euro. Un attacco analogo è in corso in Inghilterra, in Germania e in Francia. A Parigi si parla già di una bolletta fiscale (sanzioni comprese) di 1,7 miliardi di euro per i maghi del software di Mountain View.
Ma questo è solo un pezzo del miracolo tributario di Google e neanche il più importante. Il prodigio della sparizione delle tasse è reso possibile dall’allungamento della catena societaria e dal «panino olandese», che i documenti ufficiali preferiscono chiamare «pianificazione fiscale aggressiva». Anche se non vengono tassati in Italia o in Francia, infatti, i soldi di Google finiranno pure da qualche parte. E questo è il punto. O, meglio ancora, il punto è il cammino che percorrono. Proviamo a ricostruire la catena, partendo da Mountain View. Google cede i diritti sul suo software e la sua tecnologia ad una società che controlla, Google B, che sta in Irlanda, ma ha sede fiscale a Bermuda, nei Caraibi. Google B li trasferisce a Google C, che sta in Olanda. Google C a Google D che sta, di nuovo, in Irlanda (è la seconda fetta del panino, con in mezzo il formaggio olandese). Non è il gioco dell’oca, ognuno di questi passaggi è fondamentale. Alla fine, Google D mette al lavoro Google E, in Italia o in Germania. Ora, seguiamo i soldi, che ripercorrono al contrario la catena. Google E gira i suoi incassi, aggirando la Finanza, a Google D, che è il braccio operativo. Questa paga i diritti a Google C, in Olanda: siccome è un altro paese Ue, non ci paga tasse. Ma la legge olandese consente di trasferire, pagando una modesta commissione, i profitti a Bermuda. Dove non esistono tasse sulle società . Oplà , il gioco è fatto: sgradevole per l’immagine della “new economy”, ma perfettamente legale. Anche se, forse, non più per molto. A Bruxelles, la Commissione Ue ha deciso di scendere in campo contro triangolazioni fiscali, come quella di Google con l’Olanda o di Amazon con il Lussemburgo. A Mountain View se ne faranno una ragione: non sta scritto da nessuna parte che “Don’t be evil” non si applichi anche alla cartella delle tasse.
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