Tav, il tunnel e la trincea l’ultima battaglia contro il supertreno
FINO a questo punto non si era mai arrivati. Tutto quello che accadrà da oggi in poi nell’infinita vicenda della Tav è come un passo in più oltre le colonne d’Ercole. Non solo perché domani, in un salone della prefettura di Lione, Monti e Hollande diranno un nuovo sì all’opera. Ma perché da due giorni circola una fotografia che il premier italiano consegnerà ai francesi per dimostrare che anche sul versante est del Moncenisio si scava. Nessuno lo aveva mai fatto. Quando, nel dicembre 2005, erano arrivate le pale meccaniche per provarci, era scoppiata la rivolta di Venaus. Così la manifestazione di domani organizzata dai No tav italiani e dal piccolo gruppo di loro colleghi francesi, rischia di essere l’ultima grande battaglia contro il supertreno.
La fotografia è uguale a tante scattate nei cantieri di mezzo mondo. Eppure ha un valore simbolico per tutti. Per chi cerca ancora di tenere accesa la speranza che ha alimentato gli ultimi venticinque anni di proteste nella valle, e per di chi spera, finalmente, di realizzare quei 12 chilometri di galleria sul suolo italiano che consentiranno di incrociare lo scavo dei francesi, sull’altro versante, e di costruire uno dei tunnel ferroviari più lunghi d’Europa, 57 chilometri sotto il Moncenisio. La fotografia mostra una trivella che scava in orizzontale all’imbocco di una galleria protetto da una corona di metallo, «la berlinese» come la chiamano in termine tecnico gli operai della Cmc, la cooperativa di Ravenna che ha vinto lo scomodo appalto. Nella fotografia c’è proprio uno di loro, preso di spalle. Non è un bel momento per mostrarsi in volto nella tradizionale foto di gruppo con il caschetto. «Non tutti i lavori sono uguali, siete complici», urlano agli operai i No tav quando si avvicinano alle reti del cantiere avvolte dai lacrimogeni.
E se si tratta solo di prendersi gli insulti va ancora bene. Dietro quell’uomo girato di spalle ci sono vendette di valle, storie di magazzini bruciati alle ditte che accettano gli appalti, assalti agli studi di architettura che progettano.
Cose che capitano dal 2009, quando il movimento di valle ha stretto un patto con i centri sociali torinesi. Un patto per sopravvivere, un accordo che ha pagato nell’immediato ma che alla lunga ha isolato una buona fetta della protesta. E che ora ne sta bloccando lentamente anche i leader, imbrigliati in una rete di denunce,
obblighi di dimora, arresti domiciliari, conseguenza degli assalti a colpi di bastone e a sassate contro il cantiere della galleria. Giornate come quelle dell’estate 2011 hanno definitivamente alzato il livello dello scontro, riducendo il numero degli attivisti. Chi accetta di costruire check point intorno a un cantiere creando la «libera repubblica della Maddalena» e di difenderli per un’intera giornata dai tentativi di sgombero scagliando sui carabinieri anche le tazze dei wc, ha compiuto un salto di qualità dal quale è difficile tornare indietro.
Se si allargasse il campo visivo della fotografia si potrebbero scorgere, un po’ più a destra dell’imbocco della galleria, un traliccio dell’alta tensione e un pilone
votivo. Il traliccio è quello di Luca Abbà . Quel giorno ha rischiato davvero la vita. Lo ha fatto scappando di fronte agli agenti che lo inseguivano, che gli gridavano di scendere. Ha toccato il filo elettrico, è rimasto fulminato ed è caduto a terra. In quanti si sono chiesti, ci siamo chiesti, quella mattina, in quelle ore, che cosa sarebbe successo se non fosse sopravvissuto? Non era una domanda cinica, era un interrogativo pieno di senso, purtroppo. Era il 27 febbraio 2012, pochi mesi fa. Fortunatamente soprattutto per lui ma anche per tutti, Abbà si è salvato dopo un lungo ricovero in ospedale.
Il pilone votivo è poco più in là . Trasferito dopo una lunga trattativa con il vescovo perché rientrava nell’area di cantiere, non casualmente. Non si poteva far finta di niente. Era stato benedetto da un prete della diocesi di Susa. Nell’edicola ci sono diverse immagini sacre. La più importante è quella della Madonna del Rocciamelone, la Madonna che protegge il movimento contro il treno. E’ probabile che la Madonna abbia altro a cui pensare che non entrare nel merito delle infinite discussioni sul supertunnel, se sia un vantaggio per l’ambiente o sia una gravissima ferita inferta alla natura. Ma ognuno ha i suoi santi, sono gli uomini che li eleggono e li schierano in loro difesa. Anche i minatori hanno una santa protettrice: santa Barbara, ovviamente. Cade domani, è celebrata con una messa nei cantieri di tutto il mondo. Gli operai della Cmc avrebbero voluto sistemare l’altare proprio davanti all’imbocco della galleria, sotto la trivella. Sarebbe stato al centro della fotografia. Ma non c’è. Il vicario del vescovo di Susa ha risposto che no, quella messa non s’ha da fare. Perché «metà dei preti della Diocesi sono contro la Tav e l’altra metà ha paura ». Proprio così, ha paura. Facile giudicare da fuori, ma bisogna trovarsi in quelle situazioni. Ma altrettanto facile rispondere: «Quando vi siete fatto prete, qualcuno v’ha detto forse che dove cominciasse il pericolo, lì cesserebbe il dovere?». È la domanda del Cardinale Borromeo a don Abbondio. Mancano poche ore al 4 dicembre. Chi rifiuterà una messa a un gruppo di operai a Chiomonte?
La fotografia racconta tutto questo. Sarà sostituita, dopodomani, da quelle ufficiali che ritraggono Monti e Hollande alla firma dell’accordo. Ma anche quando verrà finito il supertunnel, per tutti coloro che in questi decenni hanno seguito la storia della valle nessuno di quei luoghi potrà essere un anonimo frammento di paesaggio che scorre in pochi secondi ad un’uscita di una galleria.
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