by Sergio Segio | 22 Dicembre 2012 8:01
ROMA — I testi erano pronti. Dovevano essere soltanto approvati dal Consiglio dei ministri e passare in Parlamento per il prescritto parere. A quel punto la legge anticorruzione, approvata faticosamente e con tante lacune dopo un calvario durato due anni e mezzo sarebbe diventata pienamente operativa. Ma gli altri due decreti delegati che avrebbero dovuto seguire a ruota quello sulle norme per l’incandidabilità dei condannati, approvato sul filo di lana giusto prima delle dimissioni del governo di Mario Monti, sono rimasti lì, nei cassetti di Palazzo Chigi.
Addio, dunque, alla completa trasparenza degli atti pubblici e dei bilanci prevista dal primo dei due provvedimenti che si sarebbe ispirato, nientemeno, al Freedom of information act statunitense. È il principio per cui tutti i cittadini devono avere libero, agevole e gratuito accesso a ogni informazione di natura pubblica. Il decreto avrebbe fra l’altro previsto il divieto di depistare oppure ostacolare con artifici informatici le ricerche via web e l’obbligo anche per i titolari di incarichi in enti o società partecipate da Stato, Regioni ed enti locali di rendere nota la propria situazione patrimoniale.
Addio anche al divieto di affidare incarichi di vertice nell’amministrazione e nelle imprese pubbliche a politici o a condannati per reati contro lo Stato. S’intende, per la gioia dei trombati. Questo secondo decreto, ha spiegato ieri il quotidiano finanziario Mf, avrebbe infatti impedito agli ex parlamentari europei e nazionali, come pure agli ex consiglieri regionali e ai componenti del governo, di traslocare alla testa di un’azienda pubblica una volta terminato il mandato politico. Una forma di riciclaggio diffusissima, come testimoniano i dati di una vecchia ricerca della Luiss secondo la quale nel solo 2006 ben 95 ex parlamentari furono ricollocati con questo sistema. Analogo impedimento il decreto avrebbe opposto all’ingresso in società pubbliche, Asl o altri enti, dei condannati per reati come la corruzione o di chi ricopre incarichi in potenziale conflitto d’interessi, per esempio in società private. Divieto, quest’ultimo, che sarebbe stato esteso anche ai familiari.
Addio era stato già detto al riordino delle Province, dopo che il relativo decreto si era arenato in Parlamento. Bersagliato da una fitta sassaiola di settecento emendamenti, con soddisfazione di Antonello Iannarilli, deputato (Pdl) e presidente della Provincia di Frosinone, che per protesta aveva ingurgitato olio di ricino davanti a Montecitorio, nonché di Cosimo Sibilia, senatore (Pdl) e presidente della Provincia di Avellino che aveva organizzato la resistenza a palazzo Madama. E pensare che l’abolizione delle Province l’avevano proposta tutti, ma proprio tutti.
Come anche la riduzione del numero dei parlamentari. Era stato persino raggiunto l’accordo: 508 deputati anziché 630 e 254 senatori invece di 315. Ma quando sul tavolo è piombata la proposta di riforma semipresidenzialista del Cavaliere sono stati tutti ben contenti che si fosse materializzato un provvidenziale pretesto per bloccare tutto. La verità è che quelle riforme, predicate da chiunque, in realtà non le voleva nessuno.
Al pari della legge per attuare l’articolo 49 della Costituzione, che avrebbe dovuto finalmente stabilire a 64 anni dall’approvazione della nostra carta fondamentale la natura giuridica dei partiti, regolamentandone la vita. Nonché l’uso delle risorse economiche. Di certo la premessa per rendere più seria e trasparente la gestione delle formazioni politiche. Ma poco conciliabile con la natura personale di tanti partiti: ragione probabile del suo affossamento quando, pur pieno zeppo di difetti, il provvedimento stava per essere approvato.
Analogo destino ha subito la legge sulle adozioni, proposta per sanare l’assurda situazione che si è determinata a causa di incomprensibili lungaggini burocratiche per le adozioni nel nostro Paese, dove molte famiglie che ottengono in affido un bambino se lo vedono portare via magari dopo tanti anni. La legge era sul punto di essere approvata direttamente in sede legislativa dalle commissioni, quando è arrivato lo stop.
Neppure sul testamento biologico è stato possibile raggiungere un accordo. Troppo distanti destra e sinistra: e non se n’è fatto nulla. Idem è accaduto per il riconoscimento del diritto di cittadinanza ai figli di immigrati che nascono in Italia, a favore del quale si erano espressi in tantissimi. Compreso il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Anche il provvedimento per accorciare i tempi del divorzio, che aveva finalmente superato l’esame in commissione e sembrava pronto per vedere finalmente la luce, è stato spiaggiato. A novembre la conferenza dei capigruppo l’ha depennato dall’ordine del giorno. Non li ha impietositi neppure il lungo sciopero della fame degli aderenti alla Lega italiana per il divorzio breve. L’opposizione di buona parte della destra e dei cattolici all’idea di rendere meno complicata la fine di unioni civili morte e sepolte, a pochi mesi dalle elezioni, si è rivelata insormontabile.
Né ha mosso a compassione un altro e più clamoroso sciopero della fame (e della sete): quello del vecchio e glorioso leone dei diritti civili, Marco Pannella, che ha voluto estremizzare in questo modo, mettendo in gioco anche la propria vita, la battaglia dei radicali contro la condizione indecente delle carceri italiane. I parlamentari ormai non pensavano ad altro che a caricare più cose possibili sull’ultima diligenza in partenza. Ovvero, quella della legge di stabilità . Figurarsi se avevano il tempo per approvare la legge sulle misure alternative alla galera: non la soluzione, ma almeno un piccolo sollievo per le carceri che scoppiano. La pratica passa ora al prossimo Parlamento. E non sarà certo la prima in cima al mucchio.
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