by Sergio Segio | 5 Dicembre 2012 11:43
Abbiamo raggiunto quota 56. E’ questo, secondo i dati del dossier ‘Morire di carcere‘ di Ristretti Orizzonti aggiornato a dicembre, il numero dei detenuti che dall’inizio dell’anno si sono uccisi nelle prigioni italiane. Sempre secondo i dati forniti dalla stessa associazione, dal 2000 ad oggi i suicidi sono stati 747, pari a oltre un terzo del totale delle morti tra le persone private della libertà : 2.080.
Oltre ai dati di Ristretti Orizzonti, aggiungiamo quelli del Ministero di Giustizia, secondo cui, dal 1990 al 2011, si sono suicidate 1.128 persone rinchiuse nelle patrie galere. E se nel 1990 sono stati 23 i detenuti che si sono dati la morte, tutti italiani tranne uno, l’anno scorso sono stati 63, di cui 25 stranieri. Cifre che descrivono quella realtà che, secondo il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, “non fa onore al nostro Paese”.
Ma come va nelle carceri di altri Stati? Risale al 2010 l’ultimo confronto statistico tra l’Italia, i paesi europei e gli Usa. Fatta dal Centro Studi di Ristretti Orizzonti su dati del Ministero di Giustizia, del Consiglio d’Europa e dell’U.S. Department of Justice – Bureau of Justice Statistics, l’elaborazione prende in considerazione il periodo 2005-2007. In questo triennio, in Italia, il tasso di suicidi nelle carceri è stato pari a 10 casi ogni 10 mila detenuti (salito a 11,2 nel 2009 e 2010), mentre in Europa è stato di 9,4 casi e di 2,9 negli Usa.
A un primo sguardo, però, la situazione italiana potrebbe sembrare non peggiore di altre: in paesi come Francia, Gran Bretagna o Germania avvengono più suicidi, pur avendo un numero di detenuti simile a quello italiano. Secondo il documento, però, il punto non sta nei numeri, quanto nel confronto tra la situazione dei suicidi dentro le carceri e quella fuori dalle mura di cinta. E da questa fotografia emerge che mentre in Inghilterra dentro le carceri ci si uccide cinque volte di più che fuori; in Francia 3 volte di più; in Germania e in Belgio 2 volte di più, mentre in Finlandia il tasso è lo stesso, in Italia la popolazione detenuta ricorre al suicidio 9 volte di più rispetto a quella libera, passando da 1,2 a 9,9 casi ogni 10 mila persone.
Questa distanza tra la situazione esterna e quella interna mostra, secondo il rapporto, il criterio di ‘vivibilità ‘ dei vari sistemi penitenziari. Negli Usa, trent’anni fa, il tasso di suicidi tra i detenuti era simile a quello europeo di oggi. Poi, nel 1988, il Governo istituì un Ufficio adibito alla prevenzione del fenomeno, con uno staff di 500 persone incaricate alla formazione del personale penitenziario. Il risultato è stato che in poco meno di 25 anni il tasso dei suicidi all’interno delle carceri statunitensi è crollato del 70%, assestandosi a circa un terzo di quello italiano o europeo.
Del suicidio in carcere si è occupata anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità proponendo nel 2007 un documento sulla prevenzione. “Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti ed un eventuale fallimento di questo mandato può essere perseguito a fini di legge”, si legge nel documento.
Ma l’O.M.S. sostiene che è “possibile ridurre il numero di suicidi in ambiente carcerario” e struttura il piano di intervento su alcune direttrici: l’addestramento del personale carcerario; lo screening della persona che entra in carcere; l’osservazione attenta dopo il suo ingresso e la gestione dello screening; la comunicazione tra personale carcerario sulla persona a rischio; l’intervento sociale; la cura e l’attenzione per l’ambiente e l’architettura, così che le celle siano ‘anti-suicidio’; il trattamento psichiatrico.
Così che “se avviene un tentativo di suicidio ?€“ dice il Rapporto – il personale deve essere addestrato a proteggere l’area e a prestare pronto soccorso al detenuto nell’attesa dell’arrivo del personale medico interno e/o esterno”. E ancora, “tutto il personale deve essere addestrato all’uso delle attrezzature di rianimazione, che devono essere rapidamente accessibili. Ogni membro del personale deve essere a conoscenza del da farsi in caso di un tentativo di suicidio”. In caso di suicidio riuscito, invece, “devono essere attuate procedure specifiche per documentare ufficialmente l’evento e per fornire un riscontro positivo finalizzato al miglioramento delle attività future di prevenzione del suicidio”.
In generale, l’O.M.S. rileva che i detenuti hanno tassi di suicidio fino a 7,5 volte più elevati rispetto alla comunità e che “le persone che infrangono le regole portano con sé diversi fattori di rischio e tra di loro il tasso di suicidio continua ad essere più elevato (rispetto a chi non infrange le regole, ndr) anche dopo la scarcerazione”. Per questo, “è proprio quando questi individui vulnerabili sono all’interno dell’istituzione carceraria, e quindi raggiungibili, che andrebbero trattati”. E infatti, dice l’O.M.S., dove i programmi di prevenzione dei suicidi sono stati avviati i casi sono diminuiti.
Il primo passo in questo senso è l’individuazione di un profilo che definisca situazioni e gruppi di persone a rischio. Ad esempio, i detenuti in attesa di giudizio che commettono il suicidio in carcere sono generalmente maschi, giovani (20-25 anni), non sposati, alla prima incarcerazione, arrestati per crimini minori, spesso connessi all’abuso di sostanze. Solitamente al momento dell’arresto sono sotto l’effetto delle sostanze e commettono il suicidio nelle prime fasi o addirittura ore della loro incarcerazione (a causa dell’improvviso isolamento, dello shock dell’incarcerazione, della mancanza di informazioni e delle preoccupazioni per il futuro).
I detenuti condannati che si uccidono, invece, sono più grandi (30-35 anni) e, colpevoli di reati violenti, hanno passato un certo numero di anni in carcere. Spesso, questi suicidi sono preceduti da conflitti con altri detenuti o con l’amministrazione, con la famiglia, da separazioni o questioni legali. In generale, il tasso di suicidio dei detenuti è più elevato tra quelli che hanno pene lunghe da scontare, in conseguenza al fatto che l’incarcerazione non solo rappresenta la perdita della libertà e dei legami familiari e sociali, ma è anche paura per il futuro, frustrazione ed esaurimento fisico e nervoso.
Molti detenuti si uccidono durante la notte o nel fine settimana, quando il personale è più scarso, ma anche il tipo di alloggio incide e chi è posto in celle singole o in isolamento o in particolari regimi di detenzione rischia di più. Secondo il rapporto dell’Organizzazione, le persone rinchiuse che si sono uccise avevano elementi comuni tra loro: l’assenza di supporto sociale e familiare, precedenti comportamenti suicidi, malattie psichiatriche e problematiche di natura emotiva. Spesso sono state vittime di bullismo, di conflitti con altri detenuti o di sanzioni disciplinari.
A dicembre 2011 il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria italiano e l’Istituto Superiore degli Studi Penitenziari hanno dedicato una pubblicazione al fenomeno del suicidio in carcere, dal titolo “La prevenzione dei suicidi in carcere. Contributi per la conoscenza del fenomeno”.
Nel lungo documento, parlando delle direttive dell’Amministrazione penitenziaria in materia di prevenzione dei suicidi, si legge che “ancora oggi non si può parlare di un sistema di prevenzione perfettamente strutturato”. Diversi sono i motivi, come “l’annosa questione delle risorse umane e della loro scarsa consistenza o il progressivo ed imponente aumento della consistenza della popolazione detenuta ma, soprattutto, del suo forte turn-over e delle sempre maggiori fragilità strutturali. E’, quindi, decisamente interessante che un corso di formazione diretto a funzionari di polizia futuri responsabili di reparti che operano negli istituti penali, approfondisca ed inviti a riflettere sul suicidio in carcere”.
Allo stesso tempo, però, “rispetto a qualche anno fa, la situazione è migliorata nel senso che oggi si può contare su una serie di contributi scientifici di varia natura e provenienza sicuramente maggiore ed articolata. Il mondo accademico, alcune Organizzazioni non governative e la stessa Amministrazione hanno prodotto conoscenze utili per affrontare il fenomeno dell’autolesionismo in carcere in generale ed attivare, in particolare, la prevenzione del suicidio”.
Oltre alla formazione, però, serve la comunicazione. Secondo la pubblicazione del Dap, infatti, la prima strategia per adottare gli strumenti dell’O.M.S. “è quella di una buona integrazione dei servizi. Amministrazione Penitenziaria, Asl, operatori degli enti locali e del volontariato devono poter svolgere la propria attività in un contesto caratterizzato dagli strumenti tipici del lavoro di rete, con momenti sia formali che informali di controllo e scambio di informazioni e conoscenze. La presenza di servizi in rete consente, di fatto, di moltiplicare le occasioni di ascolto e di intercettazione del disagio, oltre a rendere omogenei e tra loro congruenti gli interventi possibili, potenziandone l’idoneità e l’efficacia”.
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