by Sergio Segio | 20 Dicembre 2012 8:34
MADRID. A passo di gambero. Così si muove la Spagna nel campo della ricerca scientifica, uno dei settori più sfregiati dai tagli del governo di Mariano Rajoy, benché tra i più strategici per il rilancio e la ripresa dell’economia del paese.
Una condotta autodistruttiva che la dice lunga sulla lungimiranza delle politiche del governo e getta un’ennesima ombra sul futuro della Spagna, che sull’investimento in ricerca fa un balzo indietro nel tempo fino al 2005. Tradotto in numeri vuol dire una sforbiciata alle risorse del 39% rispetto al 2008, annus mirabilis del settore scientifico iberico, che dall’ultimo governo Aznar fino all’apice di quattro anni anni fa, aveva visto raddoppiare la cifra stanziata in ricerca. Un trend positivo invertito dallo scoppio della crisi, che ha determinato lo stillicidio culminato col colpo di mannaia che si abbatte sugli investimenti previsti per il 2013.
I «ritocchi» più duri si sono verificati a partire dal 2011 e a nulla sono servite le varie raccolte di firme promosse dalla comunità scientifica, accolte con impassibile indifferenza del governo del Partido popular.
Eppure solo fino a cinque anni fa la Spagna era meta di ricercatori provenienti da tutta Europa. Il contrario di ciò che sta accadendo ora: il personale impiegato nel settore scientifico (calcolando tutte le categorie, dai ricercatori ai tecnici), ha subito un ridimensionamento del 3%, una percentuale non indifferente per un settore numericamente già esiguo e falcidiato da una forzata emorragia di risorse umane che va sotto il nome di fuga dei cervelli. Secondo l’Istituto nazionale di statistica, infatti, nel 2011 il paese ha fatto registrare – per la prima volta da quando sono disponibili rilevazioni attendibili – un saldo migratorio negativo. Un dato determinato in gran parte dai flussi migratori di manodopera semplice e dal fenomeno dell’emigrazione di ritorno (soprattutto verso il Sudamerica), ma segnato anche dal crescente abbandono di personale altamente qualificato, formato nelle università spagnole e poi costretto alla fuga in cerca di lavoro e futuro.
Una situazione esasperante, che ha scatenato la protesta di tutto il settore della ricerca, che ieri è sceso in piazza nelle principali città al grido di «solo con la ricerca c’è futuro».
Una manifestazione corale che per la prima volta ha riunito – sotto l’emblema del collettivo Carta por ciencia – i sindacati maggioritari e le più importanti associazioni del mondo scientifico e universitario: presenti al corteo, tra gli altri collettivi, Confederacià³n Espaà±ola de Sociedades Cientàficas (Cosce), la Conferencia de Rectores de Universidad de Espaà±a (Crue, che nei giorni scorsi aveva stilato un comunicato contro i tagli all’educazione pubblica) e la Federacià³n de Jà³venes Investigadores (Fji/Precarios).
«Questa protesta, con l’appoggio della società civile, – ha dichiarato Carlos Andradas, presidente della Cosce – è l’unica maniera che ci resta per cercare di uscire da questa situazione. L’Europa ha capito l’importanza della ricerca e anche i paesi che attuano una politica anticrisi non tagliano né in educazione né in ricerca». Lo stesso non può dirsi per la Spagna, che occupa (insieme all’Italia peraltro) la parte bassa della classifica europea dei paesi che stanziano più finanziamenti per questo settore. Al capo opposto dell’elenco, invece, c’è quasi tutto il nord del continente, svettano: Svezia, Danimarca, Germania e Finlandia che non sembrano essere condizionati dalla crisi.
Nel 2012 il paese iberico ha investito nel settore scientifico un modestissimo l’1,33% (ampiamente al di sotto della media europea che sta intorno al 2%) lasciando praticamente in uno stato di semi abbandono gli enti pubblici di ricerca come il Consejo Superior de Investigaciones Cientàficas (Csic) o il Centro de Investigaciones Energéticas y Medioambientales (Ciemat), che hanno dovuto ridurre al minimo l’attività e l’innovazione e stanno persino licenziando personale.
«Se si continua così il danno sarà irreparabile – ha aggiunto il presidente della Cosce – Il governo deve capire che i soldi destinati alla ricerca non sono una spesa bensì un investimento: il migliore che un paese possa fare. E gli stati più sensibili a questa questione, come la Germania, hanno aumentato i finanziamenti anziché ridurli, nonostante la crisi. E questo perché la scienza è importante e si ripercuote direttamente sul benessere della cittadinanza».
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