Sfila l’orgoglio «choosy»

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A migliaia in piazza in tutto il paese contro l’austerità , i tagli all’istruzione pubblica e la precarietà : «È il nostro sciopero». Per il vice ministro al Welfare Martone è anche colpa degli studenti se il lavoro non si trova I professori al governo sostengono che è colpa anche degli studenti se dopo la laurea non trovano lavoro. Ai microfoni di «Radio Anch’io» il vice ministro del Welfare Michel Martone, professore ordinario di diritto del lavoro da quando ha 32 anni, ieri ha evitato di definire «sfigati» il 60% degli studenti universitari iscritti fuoricorso e si è limitato a suggerire ai ventenni «di laurearsi in corso» e agli adolescenti di lasciare perdere il liceo e l’università  perchè l’apprendistato è «la prima garanzia per avere un lavoro». Tutto questo prima che gli studenti medi e universitari iniziassero a sfilare in corteo in più di 20 città  per poi esporre dalla Mole Antonelliana di Torino lo striscione «Vogliamo il pane ma anche le rose»; picchettare la Rinascente a Piazza Fiume a Roma, mentre altri erano in assemblea nell’arena all’aperto del Sacher di Nanni Moretti. A Pisa è stata bloccata la stazione centrale ed è stato occupato l’ex cinema Ariston, mentre a Bologna da un corteo di 20 mila persone venivano lanciati uova vernice e petardi contro una filiale Unicredit e dal settimo piano è stato srotolato lo striscione «In alto le lotte, in basso l’austerità ». Scontri davanti alla sede di Confindustria a Modena.
Nello specchio deformante attraverso il quale il governo osserva i «giovani», la richiesta di tenere «fuori dal mercato la scuola e l’università », così recitava lo striscione esposto dagli universitari sul tetto dell’entrata della Sapienza, potrebbe essere il sintomo dell’atteggiamento del liceale «choosy» (schizzinoso) che non accetta di svolgere un lavoro qualsiasi in cambio di un salario miserabile. Una delle motivazioni che ha alimentato il movimento degli studenti in questo autunno è stato invece il rifiuto della professionalizzazione dell’istruzione sostenuta da Martone e dal ministro del Welfare Fornero con la riforma dell’apprendistato. Un rifiuto confermato dai dati dell’Isfol. Dal 2008, il numero medio degli apprendisti occupati è passato da 645 mila a 542 mila, un crollo del 16%, e la loro età  media è salita a più di 25 anni e riguarda sempre meno gli adolescenti. Per questo la riforma Fornero ha esteso a 29 anni la durata di questo contratto e ha promosso un’ulteriore decontribuzione dell’apprendistato per le imprese, in cambio dell’assunzione di almeno il 50% degli apprendisti dopo tre anni. Intende così legittimare la tendenza delle imprese ad assumere i diplomati e i laureati indipendentemente dal loro titolo di studio. Una realtà  che gli studenti sentono sulla propria pelle. E per questo reagiscono.
L’apprendistato è stato presentato dal governo come un modo per contrastare gli stage e i tirocini gratuiti, o a un euro, come quello del Ministero dell’Economia denunciato ieri in via XX settembre dagli studenti romani. Questi ragazzi sostengono di «non volere morire precari» perché non accettano la sistematica svalorizzazione delle competenze acquisite nel corso dei loro studi. Con un contratto a termine, e l’apprendistato lo è, che non riconosce la pienezza dei diritti sociali fondamentali, il rischio del turn-over è altissimo. I precari sono e resteranno intercambiabili, mentre l’offerta di lavoro – quando esiste – sarà  sempre più al ribasso. Lo ha confermato un recente rapporto di Bankitalia secondo il quale il 40% dei giovani tra i 24 e i 35 anni in possesso di una laurea almeno triennale svolge dal 2009 un lavoro a bassa o nessuna qualifica. I «choosy» italiani sono i giovani più flessibili d’Europa. Rischiano di restarlo a lungo, finché continueranno le politiche del rigore e non verranno rifondate le politiche sull’istruzione pubblica.
Una realtà  drammatica che Martone o Fornero non intendono riconoscere e, proprio per questa ragione hanno fatto infuriare anche gli studenti medi a cui non piace un futuro ad alto tasso di infelicità . La loro protesta non può essere tuttavia limitata su un piano vertenziale. Nei cortei di ieri è emersa ancora una volta una tensione che serpeggia da tempo nei movimenti e ha contagiato da qualche mese quello studentesco. Il conflitto contro la precarietà  e i mille modi che il legislatore sta usando per legittimarla si è spostato «sul territorio». La controprova è fornita dalle sette occupazioni di case, depositi Atac o ostelli nella Capitale. Due settimane fa è stato il turno dell’ex cinema America a Trastevere.
«Blocchiamo tutto Day» recitava lo striscione che ha aperto il corteo dei medi da Piazza Politeama a Palermo. Non è difficile immaginari che lo stesso intento lo avessero i 5 mila che hanno sfilato a Torino, i 10 mila di Napoli («sanzionata» una filiale della Deutsche Bank) e anche i 400 che hanno sfilato a Empoli. Con «bloccare» non s’intende solo arrestare la circolazione ordinaria delle macchine e degli autobus, o interrompere il flusso dei commerci e dei consumi pre-natalizi. In mancanza di un sindacato, di un’istruzione che promuove l’autonomia delle persone e di istituzioni in grado di garantirle sui luoghi di lavoro, la soluzione che sta prendendo piede è quella dell’autogestione: delle scuole, dei luoghi dismessi, del proprio tempo di vita. E cresce il desiderio di «coalizione» con altri soggetti sociali. La Fiom, ad esempio, o i «No Tav», e con chi vuole la democrazia nelle fabbriche, quella ambientale o il reddito.


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