Senza casa

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Italiani senza più casa di proprietà . Gli italiani prossimi venturi, figli e insieme vittime di questo interminabile sboom economico. Che sta cambiando tutto, il lavoro, il consumo, il risparmio, il welfare state, le famiglie, il modello di sviluppo. Le vecchie certezze come quella di poter prima o poi arrivare a comprare la casa in cui abitare. Il sogno non c’è più. Evaporato. Non si comprano più le case. Il mercato è stato ibernato. E sarà  difficile riavvolgere il nastro per tornare indietro. In un solo anno le compravendite di immobili residenziali sono crollate di quasi il 24 per cento, nella provincia (un tempo ricca oltreché laboriosa) il calo ha superato il 25 per cento. L’Istat — con il linguaggio asettico dei tecnici — parla di «variazioni tendenziali più sfavorevoli dal 2008». Non ci sarà  alcuna ripresa nel 2013.
È una discesa continua e progressiva ormai da un quinquennio, cominciata proprio con lo scoppio della crisi dei subprime americani, quei mutui concessi senza garanzia per soddisfare esattamente l’illusione della società  dei proprietari di case (la “home-owners society”) coltivato dal presidente George Bush II e dai suoi elettori. Ma l’Italia non è gli Stati Uniti d’America, l’Italia è stata — finora — una società  di proprietari. È stato, questo, un pezzo decisivo del nostro modello di sviluppo, centrato sul welfare familiare costruito sul lavoro stabile del capofamiglia.
La casa è stata la nostra ricchezza ed è diventata il tratto distintivo del nostro ceto medio, non per nulla ora colpito da un processo che l’ultimo Rapporto del Censis di Giuseppe De Rita definisce di «smottamento». Che vuol dire che è divento più povero e anche che la sua discesa nella scala sociale è destinata a proseguire lungo un tunnel che appare senza via di fuga.
Abbiamo sempre puntato, con il sostegno e la spinta delle politiche pubbliche fin dal dopoguerra, al possesso della casa, diversamente da Paesi come la Germania che nonostante un benessere largamente acquisito, e in media superiore al nostro, si è divisa sostanzialmente a metà  tra proprietari e affittuari. Noi no, noi non abbiamo avuto mezze misure. Nel 1951 (dati dai censimenti dell’Istat) era proprietario della casa in cui abitava il 40 per cento degli italiani, nel 1961 il 45,8 per cento, nel 1971 il 50,8 per cento, nel 1981 il 58,9 per cento, nel 1991 il 68 per cento e nel 2001 il 71 per cento. Ora siamo prossimi all’80 per cento contro una media tra i Paesi dell’Unione europea che si aggira intorno al 64 per cento.
Ma ora il meccanismo — anche di ascesa sociale — si è inceppato. Sta lì a dimostrarlo la caduta libera del numero di mutui con ipoteca immobiliare concessi dalle banche: meno 41,2 per cento in un solo anno. Le banche, gonfie di titoli pubblici acquistati per allentare la morsa sul debito sovrano, non concedono prestiti
a chi rischia di non poterli onorare. Le banche hanno innalzato pure i requisiti per ottenere un mutuo. Basta andare a uno sportello per capire che ormai viene richiesto quasi il 40 per cento in contanti (contro un 15 per cento nel passato) del valore dell’immobile e garanzie altissime sulle capacità  di pagare le rate. E se nel 1966 erano necessarie tre annualità  del reddito familiare medio per acquistare un casa, negli anni Duemila le annualità  hanno superato le dieci. Sempre di più, mentre il reddito reale solo nell’ultimo drammatico quinquennio è sceso del 9 per cento. Infatti non si risparmia più.
Quella di accumulare risorse innanzitutto per comprare la casa era la nostra caratteristica, cominciata negli anni del miracolo economico e proseguita fino al 2006 quando si è raggiunto il picco sia delle costruzioni di nuove abitazioni (317 mila di cui la metà  nelle regioni settentrionali) sia dei passaggi di proprietà  (845 mila). Stiamo tornando ai livelli di metà  degli anni Novanta nelle compravendite e, ormai, non siamo più le “formiche” d’Europa, visto che risparmiamo meno dei francesi e dei tedeschi. La quota del reddito degli italiani che va a risparmio è del 17 per cento, contro il 18 per cento della Francia e il 22 per cento della Germania. Siamo quattro punti percentuali sotto la media europea. Sta in questi numeri, dunque, una delle principali spiegazioni della gelata del mercato immobiliare e del nuovo corso italiano. Senza il risparmio c’è un’unica strada per entrare in possesso di una casa: la via ereditaria.
Che consolida la stratificazione sociale e finisce per accentuare le diseguaglianze. Perché, finora (come dimostra lo studio di Marianna Filandri pubblicato nel libro
Disuguaglianze diverse edito dal Mulino), sono stati soprattutto i figli della classe media impiegatizia a ricorrere al mutuo per comprare la casa, mentre i figli della borghesia per il 51,5 per cento la ottiene attraverso una donazione. Percentuale che considerando tutte le classi sociali, figli di operai compresi, scende a poco più del 40 per cento. Se la classe media non può più accedere al mutuo e diventare proprietaria è come se si fermasse, secondo i nostri canoni. Un declino che l’allontana dalle classi superiori.
E c’entra anche la precarietà  del lavoro, oltreché la crisi del lavoro con il suo mezzo milione di operai e impiegati in cassa integrazione, in questo cambio di prospettiva. «Un qualche rapporto c’è di sicuro perché quanto è maggiore la quota di contratti precari tanto minore è la propensione all’acquisto. Ma certo non è facile esaminare questo rapporto senza considerare che siamo in una fase recessiva», dice Massimo Baldini, professore di Scienza delle Finanze all’Università  di Modena e Reggio Emilia che un paio di anni fa ha scritto La casa degli italiani (il Mulino). Chi ha un contratto precario (e in Italia sono almeno in quattro milioni) non ha praticamente possibilità  di accedere a un mutuo a meno di garanzie da parte della famiglia d’origine. Dove molti tra gli under 30, dopo avere provato la strada dell’affitto, cominciano a ritornare.
Ecco, l’affitto. Segnali di cambiamento arrivano anche dal mercato dell’affitto che il legislatore (dall’equo canone ai patti in deroga) non ha mai incentivato e che, con la batosta dell’Imu sulle seconde case e l’abolizione delle detrazioni Irpef, rischia di penalizzare ulteriormente. Ma intanto ci sono 21 italiani su 100 che stanno in affitto, e soprattutto quella percentuale sfiora il 30 nelle aree metropolitane dove — scrive il Censis nell’ultimo Rapporto — «i fenomeni di cambiamento dei comportamenti spesso si presentano in anticipo o secondo modalità  più evidenti». Cercano l’affitto i “nuovi italiani”, giovani (tra i 25 e i 39 anni) e immigrati. Anche questo è significativo.
I danni economici provocati dalla lunga recessione sono paragonabili a quelli determinati da un conflitto, secondo il Centro studi della Confindustria. Nel settore dell’edilizia si sono persi quasi 550 mila posti di lavoro considerando anche l’indotto. È come dire la chiusura di 450 Alcoa, oppure di 277 Termini Imerese, o, infine, di 72 Ilva di Taranto. Il presidente dell’Ance (i costruttori), Paolo Buzzetti, propone ricette da dopoguerra: il ritorno alle cartelle fondiarie con obbligazioni emesse dalle banche per l’erogazione dei mutui, garantite direttamente dallo Stato o dalla Cassa depositi e prestiti. Il pubblico per consentire l’acquisto di casa da parte dei privati. Forse un paradosso o forse l’ultima carta per ritrovare la nostra identità  di proprietari di casa. Pensando a una frase preveggente del presidente Franklin Delano Roosevelt: «Una nazione di proprietari di case non può essere conquistata».


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