SCOPRITE LA FILOSOFIA DEL “QUASI-NIENTE”

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Vladimir Jankélévitch, chi era costui? Eppure si continuano a pubblicare in Italia le sue opere: nel 2009 il grande volume su La morte, nel 2010 la nuova edizione del suo libro chiave Il non-so-che e il quasi- niente, nel 2012 la splendida conversazione intervista con Béatrice Berlowitz Da qualche parte nell’incompiuto (Einaudi, con l’appassionato interesse di Carlo Bonadies, e a cura di Enrica Lisciani- Petrini). Jankélévitch è morto nella sua Parigi nel 1985, un anno dopo Foucault. La tonalità  morale è quella che lui stesso attribuisce alla propria filosofia, che è comunque un pensiero a tutto campo alla ricerca, ostinata e sempre inevitabilmente “incompiuta”, di un fondo tanto “semplice” quanto inarrivabile dell’esperienza del pensare e del vivere. La musica, per esempio, e quanto vi attinge per dare colore e perfino spessore al suo singolare modo di far filosofia: è uscita anche la riedizione di Debussy e il mistero (edizioni SE) e bisogna ricordare un altro testo-chiave, La musica e l’ineffabile, tradotto già  nel 1985 proprio da Lisciani-Petrini, poi riapparso nel 1998 (da Bompiani).
Enrica Lisciani-Petrini, studiosa napoletana, ha legato al nome di Jankélévitch più di trent’anni del suo lavoro: è lei che lo ha “scoperto” e adesso raccoglie gli esiti di una lunghissima fatica nel saggio Charis, una monografia compatta su Jankélévitch (Mimesis), la prima di tale impegno e penetrazione.
Charis, cioè grazia, la nota giusta per entrare in questo pensiero senza tradirlo immediatamente.
E allora perché tanta difficoltà ? Basta leggere una pagina di Jankélévitch per capire che tra lui e l’attuale dibattito, dal sapore sempre più neo-illuministico, c’è moltissima distanza, quasi un’incompatibilità .
Prendiamo solo qualche battuta dal citato libro-conversazione (Da qualche parte nell’incompiuto): «Per un po’ mi sento meno inquieto quando, dopo aver girato a lungo tutt’intorno alle parole, mi rendo conto che non posso andare oltre. La pretesa di toccare un giorno la verità  è un’utopia dogmatica, quel che importa è andare fino in fondo, e siccome ciò che cerco esiste appena, siccome l’essenziale è un quasi- niente, una cosa leggera fra tutte le cose leggere, questa ricerca forsennata tende soprattutto a mostrare qualcosa di cui si può intravedere l’apparizione, ma non verificarla perché svanisce nell’istante stesso in cui appare».
E così che lui reinventa la lezione del maestro Bergson, e un’intera generazione di intellettuali francesi ha fatto tesoro del suo insegnamento alla Sorbona e una folla di studenti e studiosi ha trattenuto nelle orecchie parole come queste. Oggi il nostro orecchio sembra meno adatto: abbiamo fretta di correre alla verità , quasi nessuna pazienza di girare e rigirare le parole per orientarle a un obiettivo che subito si preannuncia deludente. Jankélévitch aborriva gli “insipidi itinerari del turismo filosofico”, chiedeva tempo e pazienza. Attenzione, però: niente a che fare con una grigia filosofia accademica, ma, al tempo stesso, niente a che fare con un pensiero sfumato e vago. Anzi, lui riprende in modo sorprendente l’adagio di Husserl, strenge Wissenschaft, scienza rigorosa, intendendo con esso l’incessante interrogazione, l’andare fino in fondo anche se l’oggetto sfugge per definizione e scompare proprio quando credi di averlo catturato nella rete della speculazione: il tema della “morte” è per eccellenza un simile oggetto, ma tutti quelli lavorati da Jankélévitch sono simili oggetti. Già , cosa dobbiamo intendere per “rigore”? A che titolo considerare poco rigoroso un modo di pensare che, sulla linea di Agostino e di Bergson, ci mette di fronte all’ineffabilità  dell’esperienza del tempo? È più rigoroso stringere in una formula questa esperienza, oppure accorgersi che stringerla in una simile formula è un trucco per tradirla, mentre essa chiede il rigore di un’incessante apertura, il riconoscimento della sua essenza “misteriosa”? Inoltre, questo inabituale rigore deve coniugarsi, secondo Jankélévitch, con il ritrovamento della semplicità : è la fatica (“forsennata”, dice) di conquistare una semplicità  che tutti sentiamo a portata di mano, quasi intuitiva, ma che ogni volta ingombriamo di discorsi opachi e alla lettera viziosi.
Il mio incontro con il pensiero di Jankélévitch è avvenuto attraverso un suo vecchio saggio sull’ironia (1936, tradotto dal Melangolo, 1987) che ho letto come un “elogio della litote”: un’antiretorica del “meno”, l’abbassamento del tono come risultato di una “buona coscienza” di tipo ironico.
 È questo il filo che ci può portare a far nostra la “grazia” che respira in tutte le sue pagine, a non fraintendere l’insistenza sullo charme, in cui lui sposa filosofia e musica mostrando che il “silenzio” è un operatore decisivo del pensare, un tono basso contro i toni alti di tanta filosofia. Ecco dunque un altro pensatore che sembra diventare col tempo sempre più inattuale e che lo rimarrà , necessariamente, finché sarà  così invadente e frenetico il nostro desiderio di impadronirci della verità , una volta per tutte.


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