Salari scesi sotto i Livelli del 2000
ROMA — Guadagniamo meno che nel 2000. Le retribuzioni nette di fatto sono scese, a prezzi correnti, sotto quelle di dodici anni fa: in media nel 2012 il salario netto annuo era di 20.786 euro contro i 20.877 del 2000. Rispetto all’inflazione, nello stesso periodo, la perdita cumulata di potere d’acquisto è stata in media di 5.338 euro. Se a questa somma si aggiunge la mancata restituzione del fiscal drag, cioè delle maggiori imposte pagate per effetto dell’aumento nominale dei redditi (che fa scattare aliquote Irpef maggiori senza che sia aumentato il potere d’acquisto), i salari hanno perso mediamente 8.154 euro in dodici anni. E per il 2013 si può prevedere un’ulteriore perdita. Tutto questo non farà che confermare la posizione di coda occupata dall’Italia nelle classifiche Ocse (organizzazione dei Paesi industrializzati) sui salari, dopo Regno Unito, Germania, Francia e perfino Spagna. Sono questi i principali dati contenuti nel nuovo Rapporto sulle retribuzioni a cura dell’Isrf-Lab della Fisac-Cgil, curato da Agostino Megale come quello del 2010 (allora targato Ires). Il rapporto, questa volta, approfondisce l’impatto della crisi sul mercato del lavoro e sulle dinamiche retributive. Un impatto pesante.
Innanzitutto sull’occupazione. In termini di giornate lavorative a tempo pieno, le unità di lavoro (Ula) sono diminuite di oltre 1,4 milioni rispetto al picco registrato tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008. Insomma anche se il numero delle persone occupate è sceso «solo» di mezzo milione, da 23,4 a 22,9 milioni, il numero di ore lavorate e le corrispondenti Ula, che poi rilevano ai fini dell’andamento del prodotto interno lordo, sono scese molto di più. Un Pil che, non a caso, è in recessione e lo resterà anche nel 2013.
Il governo Monti, dice la Cgil, ha certamente fatto bene sul piano del recupero del prestigio internazionale dell’Italia e della riduzione dello spread, il differenziale con i tassi di interesse sui titoli di Stato tedeschi, che è sceso da un picco di 575 punti, toccato nel novembre 2011, ai 320 punti di venerdì scorso, facendo scendere la spesa per interessi sul debito pubblico italiano. Ma su tutti gli altri parametri, aggiunge Megale, dal Pil ai salari, dall’occupazione alla produzione, il bilancio è negativo.
I lavoratori perdono potere d’acquisto. Sommando l’inflazione del triennio 2010-2012 si ottiene un aumento dei prezzi dell’8%, le retribuzioni di fatto invece, al netto di tasse e contributi, salgono solo del 4,5%. Questo significa, dice il rapporto, che i salari hanno perso in media 70 euro al mese rispetto ai prezzi, ai quali se ne aggiungeranno altri 35 nel 2013. Alla fine la perdita cumulata annua sarà di 1.300 euro. Le retribuzioni nette sono basse anche per colpa di una eccessiva pressione fiscale. Nel 2010 era pari al 42,1% per le famiglie e del 46,9% per i single, rispettivamente 12,3 punti e 10,2 punti in più rispetto alla media dei Paesi Ocse. Per effetto delle manovre 2011 e 2012, la pressione fiscale salirà nel 2014 al 46,8% per le famiglie e addirittura al 51,3% per i single. Il maggior prelievo sul lavoro in Italia rispetto alla media Ocse si traduce in un minor salario netto di 1.380 euro l’anno, calcola l’Isrf-Cgil.
Secondo il sindacato guidato da Susanna Camusso, la riforma del modello contrattuale del 2009, che la Cgil non ha condiviso, ha contribuito a peggiorare la situazione, tanto è vero che la perdita di potere d’acquisto è stata netta negli ultimi due anni (-1,2 e -2,1 punti). Colpa dell’Ipca, cioè l’inflazione attesa al netto della componente energetica importata, parametro guida per l’adeguamento delle retribuzioni. Un indice ora superato dall’ultimo accordo sulla contrattazione, anche questo non firmato dalla Cgil. I salari non solo sono rimasti bassi, ma sono anche aumentate le sperequazioni. Nel 2010 un amministratore delegato, si legge nel rapporto, ha percepito in media 110 volte la somma intascata da un lavoratore dipendente. Ma anche tra i lavoratori dipendenti le differenze esistono. L’Isfr calcola che rispetto a un lavoratore standard una donna ha uno stipendio più basso del 12%, il dipendente di una piccola impresa (fino a 20 addetti) del 18%, uno del Sud del 19%, un immigrato del 25%, un lavoratore a termine del 26%, un giovane del 27% e un collaboratore del 33%.
È evidente però che i salari sono bassi anche perché la produttività è scarsa. Il rapporto conferma che l’Italia è agli ultimi posti nelle classifiche internazionali. Il valore aggiunto reale prodotto per addetto è rimasto più o meno fermo dal 1995 a oggi mentre nel Regno Unito, in Germania e in Francia è aumentato di circa il 25%. Ma ciò è dovuto, secondo il rapporto, soprattutto al fatto che in questi Paesi la dimensione media d’impresa è maggiore. È questa che fa la differenza, non le ore lavorate per addetto che nel 2011, secondo l’Ocse, sono state in Italia di più rispetto a quelle lavorate dagli inglesi, francesi e tedeschi, anche se in questi Paesi sono molti di più coloro che lavorano. Solo che dove ci sono imprese più grandi si fanno più investimenti in innovazione e ricerca e la produttività sale e così anche i salari. «Se avessimo aziende con in media 13 dipendenti come in Germania anziché 3,5 come da noi — afferma Megale — la produttività in Italia aumenterebbe del 40%. Ma nulla è stato fatto per promuovere la crescita dimensionale delle imprese. Bisogna ripartire da qui e dalla riduzione del carico fiscale sulle retribuzioni, per rilanciare da subito la domanda».
Enrico Marro
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