Riforma della scuola, Chiesa e privati ringraziano

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BARCELLONA. La nuova offensiva del governo di Madrid passa per l’istruzione. Dopo le lezioni in strada all’Università  Complutense di Madrid per denunciare i tagli agli atenei e alla ricerca scientifica per l’anno che viene (il governo propone il 18% per l’università  e l’80% in meno dell’investimento non finanziario per la ricerca scientifica), ieri la conferenza dei rettori spagnoli (Crue) ha fatto trapelare un documento di dura protesta che i 50 rettori delle università  pubbliche spagnole leggeranno in aula simultaneamente lunedì alle 12. Qualche mese fa, gli stessi rettori avevano clamorosamente lasciato un incontro con il ministro perché si era rifiutato di discutere dei tagli proposti. Non era mai successo prima.
Il ministro al centro del ciclone è José Ignacio Wert, responsabile del settore, protagonista anche di una enorme polemica questa settimana per la sua proposta di riforma della scuola, la settima dall’inizio della democrazia, presentata lunedì ai responsabili dell’educazione di tutte le comunità  autonome spagnole.
La riforma elimina del tutto la materia «educazione alla cittadinanza», un’invenzione dei socialisti che doveva servire a introdurre i concetti di convivenza civile, i diritti costituzionali o temi come quelli delle famiglie diverse da quelle tradizionali. Wert ne aveva già  depotenziato i programmi, che ossessionavano i popolari. E ora anche i vescovi si fregano le mani: si reintroduce un’alternativa obbligatoria e valutabile alla religione, il cui voto non fa media, contando di spingere più alunni a scegliere l’ora di religione. Altro punto dolente le facilitazioni alle scuole «concertate», ossia le scuole private che lo stato pagava finora in assenza di un’alternativa pubblica, mentre ora si aggiunge l’ambigua opzione «o in presenza di domanda sociale». Non solo: si elimina l’obbligo della presenza di un rappresentante del comune nel consiglio scolastico delle scuole finanziate. Il governo torna inoltre ad accentrare le competenze educative, arrogandosi la possibilità  di stabilire il contenuto della gran parte delle materie (ora è poco più della metà ).
Ma è il tema della lingua ad aver decisamente incendiato il dibattito, soprattutto in Catalogna (e un po’ nelle altre comunità  dove si parla una delle tre lingue co-ufficiali). Il ministro, già  salito agli onori delle cronache qualche settimana fa per aver detto, nella migliore tradizione franchista, che era necessario «spagnolizzare gli alunni catalani», ha deciso di infliggere un colpo mortale al modello educativo catalano. Al contrario che nei Paesi Baschi o in Galizia, dove la presenza della lingua locale si associa a quella dello spagnolo nei curricoli educativi, con formule differenziate secondo i casi, in Catalogna da 30 anni è in vigore un modello cosiddetto di «immersione linguistica» che consiste nell’impartire le lezioni esclusivamente in catalano, nella convinzione che per garantire a tutti di poter parlare e scrivere correttamente il catalano, una lingua perseguitata durante il franchismo, sia necessario il suo rafforzamento didattico. L’apprendimento del castigliano (lo spagnolo), lingua più forte culturalmente, è garantito in parallelo. I risultati dei test Pisa in spagnolo dimostrano che gli alunni catalani raggiungono gli stessi livelli di tutti gli altri e in più sono perfettamente bilingui. Questo modello, che in Catalogna riscuote un consenso praticamente unanime, è sempre stato visto con diffidenza da Madrid. La riforma di Wert prevede di declassare il catalano (e le altre lingue co-ufficiali) al quarto posto nella gerarchia delle materie «importanti» e obbligherebbe la Comunità  Autonoma a finanziare scuole private che insegnino in castigliano qualora non fossero presenti alternative nelle scuole pubbliche. In Catalogna le famiglie che hanno chiesto di non studiare in catalano sono state poche decine in trent’anni.
Il tema delle lingue e delle plurinazionalità  in Spagna è sempre molto delicato, e l’atteggiamento retrogrado di ministri come Wert rischia di gettare al vento 30 anni di passi in avanti per trasformare la Spagna di Franco in una Spagna plurale.


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