by Sergio Segio | 6 Dicembre 2012 8:17
Succede che si confonda volentieri Israele con “gli ebrei”, e che si confonda lo Stato di Israele coi suoi governi: confusione che non avviene per altri paesi, e che sottintende, più o meno avvertitamente, l’idea che lo Stato di Israele sia un infortunio provvisorio della storia. Reciprocamente, governanti di Israele si fanno scudo della stessa confusione per far passare le loro libere e deliberate scelte politiche come imposte da una condizione di necessità : la difesa della sopravvivenza di Israele. Quest’ultima non è oggi meno minacciata di quanto fosse in passato, come nell’avanzata nucleare dell’Iran. Chi ama Israele e ricorda il debito irrisarcibile che l’Europa tutta contrasse con i cittadini europei superstiti che vi ripararono, fa spesso fatica a tener ferma la distinzione. Il governo di Netanyahu e Liberman è mosso da un oltranzismo miope, e ne ha appena dato saggio con la ritorsione delle nuove colonie. Sotto la formula, ripetuta troppo stancamente e a memoria, “due popoli e due Stati”, c’è un punto così scandalosamente semplice che si esita quasi a enunciarlo: che non si può voler bene a Israele senza voler bene alla Palestina, che non si può voler bene alla Palestina senza voler bene a Israele. Suona come una stucchevole banalità , vero? Il mondo va altrimenti. Per voler bene a Israele bisogna odiare la Palestina, per voler bene alla Palestina bisogna odiare Israele. Succede anche con le squadre di calcio. Là ha l’odore eccitante della guerra e del sangue, o la rassegnazione a una condanna.
L’odore del sangue e la sensazione di una fatalità si nutrono della prossimità , della strettezza. La terra che si contendono, poco più grande della Toscana, è la stessa, colline dolci e ulivi secolari, troppo piccola per separarli davvero, per allargare le maglie, come occorre in una mischia. E poi israeliani e palestinesi si conoscono, e perciò si assomigliano. Lo disse una volta, quasi vent’anni fa, David Grossman. Disse che i due popoli sono sempre stati affascinati l’uno dell’altro: guardano la stessa tv, ascoltano le stesse canzoni; hanno la stessa scettica insofferenza nei confronti dei poteri costituiti. Da allora sono passate due intifade, due guerre di Gaza e un processo di pace che tutti proclamano fallito. Ma i due popoli continuano a specchiarsi l’uno nell’altro. Il parossismo della tensione fra vittima e carnefice cambia di campo, secondo le circostanze, in un vortice di violenze, recriminazioni, disconoscimenti, e fondamentalismi. A sua volta Amos Oz sostiene che ad accomunare i fondamentalisti delle due parti è la mancanza del senso dell’umorismo. È un allarme: attenti perché le somiglianze tra i due popoli stanno prendendo una china senza ritorno.
Chi ama Israele deve avere il coraggio di dire che è pericolosa e dissennata l’idea di costruire altre case, un altro insediamento (3.400 abitazioni) alle porte di Gerusalemme come una ritorsione per la decisione dell’Assemblea generale dell’Onu di conferire alla Palestina lo status dello Stato osservatore. È un paradosso, ma proprio perché lo spazio della Palestina-Israele è così esiguo e limitato, e perché i due popoli sono condannati a convivere, a meno di una catastrofe, oggi occorre la separazione. Come in una famiglia che disponga di una sola casa: ognuno nella propria stanza, per cercare di riprendere il filo della propria vita. Ci si incontra quando è necessario – o quando si è pronti.
C’è un argomento ancora più forte per convincersi della reciprocità . Se fossi un israeliano (lo siamo un po’, no?
Se non altro per la nostra porzione di passato, ad dishonorem) farei di tutto per favorire la nascita della Palestina, perché finalmente sarà lo Stato palestinese a sancire agli occhi del mondo arabo la legittimità di quello degli ebrei. Gli accordi di pace con Egitto e Giordania non tolgono che Israele sia inviso al mondo arabo. Intellettuali, attivisti, artisti rifuggono i contatti con i loro colleghi israeliani. Israele è tuttora sentito come una potenza (una potenza, nonostante le dimensioni fisiche) estranea alla regione, che esiste perché ha spogliato il suo vicino di ogni diritto. Lo Stato della Palestina accanto a quello d’Israele contraddirebbe questo sentimento di fuori, e indurrebbe dentro Israele il ripensamento della storia propria e di quella dei palestinesi. Lo Stato di Palestina aiuterebbe una convalescenza della società israeliana da molte delle sue nevrosi. E i palestinesi, una volta conquistata la sovranità , sarebbero indotti, se non a rinunciare ai sogni (chi può vivere senza sognare?) di tornare nelle case di Giaffa, Haifa o Lod, a misurarli con la realtà . Si può anche condividerlo, un sogno: per esempio, che nasca a Gerusalemme un’università comune ai due popoli dove studiare la storia del conflitto, e i suoi effetti sulle anime.
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