Premio Nobel: Non diamo la pace per scontata
Nella nostra regione del mondo la “pace eterna” non è certo una garanzia. Potremo considerare l’Ue un progetto di pacificazione di successo solo se non avremo guerre nei prossimi cento anni. Ricevere il Nobel per la pace 2012 equivale a provocare gli dei. Ma possiamo anche vedere in questo riconoscimento il segnale di inizio di tutte le discussioni che ben presto avranno luogo sulla commemorazione del “big bang del ventesimo secolo” [la prima guerra mondiale]. Da questo punto di vista possiamo dire che il comitato del Nobel ha anticipato tutti.
Tutte le celebrazioni sono valide per avviare un dibattito sull’Europa, il cui credo – “mai più questo” – secondo alcuni osservatori critici comincia a non avere più molto significato. Chi ha qualche nozione di storia europea rimane sorpreso di fronte a una tale travisamento degli eventi storici. Ma questo non vuol dire che l’Ue sia indispensabile per la pace in Europa. Si ha il diritto di dubitare. Del resto non è un caso che alcuni paesi pacifici come la Norvegia e la Svizzera sono rimaste fuori dall’Ue e che l’Europa stessa, incapace di assicurare da sola la propria sicurezza, si sia rivolta agli Stati Uniti.
L’ipotesi che una potenza straniera possa diventare ostile non è così remota. La Russia di oggi non è più l’impero del male di un tempo, ma sotto Vladimir Putin cerca di ritrovare l’onore perduto ed esercita pressioni sui suoi vicini in Bielorussia, in Georgia e in Ucraina, repubbliche che – come gli stati baltici, ormai membri dell’Ue – facevano parte dell’Unione Sovietica. Difficile immaginare Tallinn, Riga e Vilnius al riparo dall’influenza russa. In Europa occidentale nessuno ci pensa, al contrario dell’Europa orientale dove si è più sensibili a questo aspetto. Ma forse per la nostra tranquillità è meglio non svegliare il can che dorme. Questa è stata la strategia dell’Europa di fronte ai pericoli esterni.
Un atteggiamento del genere può sembrare più cinico di quello che è in realtà . Chiunque pensi che l’Europa debba poter rispondere a qualunque minaccia esterna presuppone l’esistenza di una linea di demarcazione che di fatto non esiste. La delimitazione delle frontiere esterne dell’Europa, soprattutto a est, è volutamente vaga. La cortina di ferro, che durante la guerra fredda permetteva di farsi un’idea chiara del mondo, è scomparsa, e allargandosi a est l’Ue ha favorito la stabilizzazione colmando un pericoloso vuoto di potere.
L’allargamento dell’Ue rimane aperto, ma il Bosforo, con un governo turco “filo-islamico”, appare troppo lontano. Nel frattempo vediamo sul versante occidentale i britannici, unici difensori della nostra libertà nel 1940, prendere sempre più le distanze dall’Ue. Questo ha delle conseguenze per la politica estera e di difesa comune dell’Europa. Senza i britannici, che insieme ai francesi dispongono del diritto di veto alle Nazioni Unite, questa politica non ha alcuna possibilità di riuscire.
A Bruxelles si tende a considerare l’atteggiamento britannico come un dato di fatto, per stanchezza di fronte al loro scetticismo nei confronti dell’Europa. Ma se Londra dovesse ufficialmente ritirarsi dall’Ue ogni speranza di vedere un giorno l’Europa reggersi sulle proprie gambe scomparirebbe del tutto. Una speranza che fino a oggi è servita a sedurre gli americani. Gli Stati Uniti infatti non sono disposti a garantire per sempre la sicurezza dell’Europa, soprattutto se gli europei non offrono nulla in cambio.
All’esterno dell’Europa ci sono zone di conflitto con le quali l’Europa mantiene da sempre dei legami. E’ curioso che lo smantellamento degli imperi coloniali e le guerre sporche che lo hanno accompagnato non abbiano avuto ripercussioni negative sull’integrazione europea, che è cominciata nello stesso periodo. A mio parere questo deriva dal carattere unico dell’aspirazione europea alla pacificazione, che a partire dagli anni cinquanta è stata interamente centrata sulla riconciliazione interna e ha permesso di affidare a forze emergenti gli imperi coloniali che erano precipitati nel caos.
Pacifismo pragmatico
La Comunità europea del carbone e dell’acciaio, fondata nel 1951, era un progetto di pacificazione a uso interno, che metteva sotto il controllo di un’amministrazione europea l’industria pesante della Germania e della Francia. Un progetto brillante che ha gettato le basi della loro storica riconciliazione.
Questo “pacifismo pragmatico”, nato dalla necessità e da una felice combinazione di eventi, costringe da un lato ad adottare una posizione che cerca di evitare i conflitti nei confronti del mondo esterno, dall’altro uno sterile progressismo tecnocratico rivolto all’interno. Un approccio che si rispecchia anche nei nostri stati assistenziali nazionali, l’orgoglio del modello europeo. Anche in questo caso si cerca di negoziare, rimandando all’infinito i problemi o ridefinendo continuamente gli aspetti tecnici. Una politicizzazione libererebbe troppi impulsi emotivi.
L’Europa ha l’impressione di esistere solo se si modernizza e integra, com dimostra la crisi dell’euro. Un crisi che suscita dissensi che l’euro avrebbe dovuto eliminare e costringe a una pericolosa fuga in avanti. Questo indebolisce il progetto di pacificazione europea. Se l’euro crolla si assisterà al ritorno alla politica dell'”ognuno per sé” e al protezionismo degli anni trenta. Si può per esempio immaginare che la Spagna, la cui integrazione in Europa è stata un successo, scivoli di nuovo in una guerra civile a causa dei suoi dissensi regionali che non sono mai completamente scomparsi.
Il malcontento ha radici molto profonde. La parte protestante dell’Europa si lamenta dei vizi dell’Europa cattolica, come se ci trovassimo di nuovo ai tempi della riforma. Non bisogna credere che la pace in Europa sia automatica perché ai giovani interessano solo i voli low cost e gli iPhone e che la guerra non sia utile. Quest’ultimo punto era di moda anche cento anni fa. In fin dei conti è del tutto logico che il comitato del Nobel onori l’Ue proprio in questo momento. In Scandinavia sanno apprezzare il “politically correct”, anche se può provocare dissensi.
Traduzione di Andrea De Ritis
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