Pessimisti è meglio

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NEW YORK. Virtù triste, consolazione dei perdenti, sintomo del declino di una civiltà : il pessimismo era diventato un tratto quasi esclusivo del carattere europeo. Vai in Cina o in India, in Brasile o in Australia, e trovi nazioni giovani dove il dinamismo economico si associa a fiducia nel futuro, voglia di fare, aspettative crescenti. In quanto all’America, inventò e codificò per prima il Positive Thinking.
Pensare positivo fa bene, genera entusiasmo nei luoghi di lavoro, motiva i dipendenti: così recitava il credo imperante nella società  americana da un secolo. Se vuoi fare carriera in azienda, guai ad apparire come un menagramo, bastian contrario, disfattista.
Perfino nella sfera personale, pensare positivo ti dà  una marcia in più, aiuta a superare i difetti e manchevolezze, ti rende più gradevole per i familiari e gli amici.
Ma adesso l’America ci ripensa. Ad annunciare la rivincita dei pessimisti è un autorevole saggio che si sta imponendo nelle Business School di tutti gli Stati Uniti. Ha un titolo che è un pugno nello stomaco: Prozac Leadership.
Proprio così, i top manager che ci hanno imposto la religione dell’ottimismo hanno somministrato l’equivalente di uno psicofarmaco. Va bene se ti cura la depressione, certo. Ma quando diventa una parte della tua dieta quotidiana, uno stile di vita, il termine Prozac è usato qui in quanto sinonimo di una “felicità  artificiale”. Come quella che accompagnò la crescita capitalistica fino al 2008.
Ecco, la grande crisi segna la fine della superiorità  dell’ottimismo. Una condanna inappellabile. L’autore di Prozac Leadership è un professore inglese: David Collinson, insegna alla Lancaster University Management School. Ma le sue teorie dilagano soprattutto negli Stati Uniti. È nel mondo delle imprese americane, infatti, che Collinson ha trovato la maggior parte dei 200 “casi da manuale” sui danni dell’ottimismo. Addentrandosi nelle regole del management che hanno dominato per molti decenni, l’esperto ha trovato le cause scatenanti del crac del 2008. Alla radice, c’è un ordine gerarchico e una cultura del comando che “premiando l’ottimismo e scoraggiando il pessimismo hanno indebolito la capacità  di pensare criticamente”.
Il Positive Thinking era diventato una dittatura del conformismo. Ha anestetizzato le sensibilità  al pericolo. Ha reso semiincoscienti di fronte alla natura e dimensione degli azzardi: per esempio nel mondo della finanza. Wall Street è un laboratorio ideale per studiare i danni dell’ottimismo. Lo ammette la Bibbia di questo mondo, il
Wall Street Journal di Rupert Murdoch, che sintetizza così le conclusioni dell’economista inglese: “Il leader-Prozac e la cultura acritica che impone ai suoi collaboratori intimorisce e zittisce i dissenzienti o i preoccupati. Costringe i subordinati a tenersi per sé le proprie paure pur di proteggere carriera, reputazione, stipendio, sicurezza del lavoro. I dipendenti si auto-censurano, non fanno le domande che vorrebbero fare, selezionano solo i dati più positivi, e via via si isolano pericolosamente dalle realtà  sociali ed economiche”. Ricordiamo tutti il grido offeso dei banchieri di fronte al movimento Occupy Wall Street un anno fa: “Perché ce l’hanno con noi?” Un’intera oligarchia aveva perso contatti con il mondo reale.
Il cambio di atmosfera attuale è catturato perfettamente dal titolo del Wall Street Journal, per la sua recensione allo studio di Collinson: “Pessimism is Cool”.
Il riscatto del pessimismo premia anche altri studiosi, che non avevano mai rinunciato ad un approccio critico verso il Positive Thinking.
Tra questi c’è il sino- americano Edward Chang, psicopatologo al policlinico della University of Michigan. Lui coordina uno studio che dura da decenni, all’interno di un laboratorio battezzato nientemeno che “Optimism- Pessimism Lab”.
Allargando la visuale ben oltre il mondo del lavoro e dell’economia, la ricerca vuole abbracciare tutte le conseguenze positive e negative dell’ottimismo e del pessimismo. Non è solo nel management che abbiamo visto imporsi la figura del leader carismatico, convinto di trascinare i suoi seguaci verso il successo vendendo sogni, visioni positive, ottimismo a iosa. Un po’ di saggezza orientale aiuta a controbilanciare questi eccessi. La rivista Management Next nel suo numero del giugno 2012 ha chiesto un contributo al guru indiano Jaggi Vasudev, che non è tenero con il Positive Thinking: “Se non vedi le cose negative nel mondo che ti circonda, vivi in un paradiso per idioti e la vita ti castigherà  per questo. L’ottimismo ad ogni costo è fuga dalla realtà . Puoi ignorare l’altro che ti dà  fastidio, ma l’altro non ignorerà  te”.
Una corrente di sano scetticismo era sempre esistita anche tra i teorici americani del management aziendale. Uno dei più brillanti dissacratori del capitalismo Usa fu Laurence Peter, l’inventore del Principio di Peter: secondo cui all’interno di ogni organizzazione ciascuno viene promosso fino a quando raggiunge un livello di responsabilità  per il quale è del tutto incompetente. Una sorta di teoria dell’assurdo, magnificamente adatta a spiegare l’abbondanza di manager “inadeguati”. Lo stesso Peter definiva un pessimista colui che prima di attraversare la strada guarda da ambo i lati. Pessimista? Oggidì per le strade di New York questa è diventata una regola di base per la sopravvivenza: da quando i ciclisti sfrecciano ad alta velocità  in contromano, e le collisioni ciclista- pedone sono all’ordine del giorno. Ecco, è proprio questo che interessa gli psicologi come Chang, cioè il ruolo essenziale del pessimismo nella sopravvivenza della specie. C’è evidentemente una radice atavica del Negative Thinking: i nostri antenati dovevano vivere in stato di allarme permanente, per sentire i passi felpati della belva che stava entrando nella caverna. La selezione darwiniana probabilmente sterminò gli ottimisti che dormivano di un sonno profondo e beato. Oggi l’intera specie umana non corre pericoli altrettanto gravi davanti a disoccupazione di massa, cambiamento climatico, esaurimento di risorse naturali?
La contro-obiezione più importante è quella del columnist del New York Times Thomas Friedman: “I pessimisti hanno spesso ragione e gli ottimisti hanno spesso torto, però i grandi progressi sono stati realizzati dagli ottimisti”. Esisterebbe la Silicon Valley, darebbe spazio a dei ventenni ricchi d’ingegno creativo e privi di capitali, se non ci fosse una formidabile molla positiva a infondere fiducia nel progresso? L’analisi delle biografie individuali dei grandi geni creativi dà  un quadro più sfumato. Steve Jobs era un maestro nell’alternanza instabile fra ottimismo e pessimismo. Era mosso da fiducia incrollabile nelle sue visioni, certo. Ma era anche capace di una sistematica energia distruttiva, nella critica spietata delle idee sfornate dai suoi collaboratori: con punte quasi sadiche, esercitava una ricerca maniacale dell’errore e del difetto. Il pessimismo come coadiuvante del perfezionismo?
Resta un campo nel quale il Positive Thinking ha dei benefici non trascurabili: la salute. Qui continua a fare testo una ricerca di quasi vent’anni fa, guidata dal professor Robert Hahn per i Federal Centers of Disease Control and Prevention. È l’indagine sanitaria che dimostrò l’esistenza dell’effetto “nocebo”. Cioè il contrario del placebo. L’effetto nocebo è la capacità  degli ipocondriaci di ammalarsi davvero, a furia di immaginarsi affetti da ogni sorta di patologia. Quello studio non arrivò a confermare che la “energia positiva” dell’ottimismo può essere terapeutica. Ma stimò a 26.000 morti l’anno, il bilancio dei danni provocati dall’auto-convincimento di essere affetti da malattie cardiache. Come tutte le medicine, gli eccitanti e gli stimolanti, anche il pessimismo va assorbito seguendo le istruzioni: con moderazione.


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