Perché Bersani è andato in Libia?

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E per uno spazio geopolitico nel quale l’Italia vorrebbe tornare ad avere un ruolo di primo piano sulla scia delle trasformazioni – vedi le cosiddette «primavere arabe» – in atto nell’altra sponda del Maghreb.
È lo stesso Bersani del resto a insistere: l’obiettivo è «diventare l’amico numero uno della Libia liberata». Ci sembra una spiegazione formale che, francamente, non basta. Le primavere arabe sono state tutto meno che una vicenda dalle stesse modalità  e risultati e tantomeno appaiono effettivamente concluse. Come dimostrano diversamente la Tunisia e l’Egitto, dove al potere sono arrivati i Fratelli musulmani e le frange estreme dell’integralismo salafita, elettoralmente e dopo i movimenti democratici di massa che hanno portato alla cacciata dei dittatori Ben Ali e Mubarak entrambi paladini dell’Occidente; e diversamente dalla Libia, dove la cacciata di Gheddafi è stata ottenuta solo grazie all’intervento militare della Nato e dopo un bagno di sangue in una aperta guerra civile che ha visto decine di migliaia di morti, con ruolo militare italiano nonostante il «nostro» precedente sostegno massiccio al raìs.
A Tripoli l’incertezza continua e regna sovrana. Il parlamento dove è stato in questi giorni Bersani e le sedi del governo che ha visitato, solo due mesi fa sono state occupate dalle milizie degli insorti, mentre in Libia gli scontri armati non sono finiti come prova la vicenda infinita dell’oasi di Bani Walid; e a Bengasi solo l’11 settembre scorso l’uccisione dell’ambasciatore americano Chris Stevens ha prodotto un vulnus tutt’altro che sanato nell’Amministrazione Usa di Barack Obama che dell’intervento militare a fianco degli insorti ha fatto un suo motivo d’onore. Insomma, non c’è stabilità  ma tanta, troppa insicurezza per il presente e per il futuro, le elezioni non hanno prodotto un nuovo governo effettivo, né si sono delineati nuovi poteri istituzionali affidabili.
Rifacciamo dunque la domanda: non sarà  che Pierluigi Bersani, anche rischiando di apparire meno «pane, salame e parmigiano» ha messo i piedi nel piatto di un nodo strategico, quello dell’approvvigionamento di idrocarburi e, quindi, è andato in Libia sollecitato dall’Eni? Spinto in buona sostanza dalla necessità  di supportare «dal governo» prossimo venturo sia le fragili istituzioni a Tripoli, sia la sicurezza di alcune parti del territorio libico, decisive per la produzione di idrocarburi, con la promessa di un input militare italiano?
Se, com’è assai credibile, le cose stanno così, è bene formulare un’ultima, davvero importante, domanda a Pierluigi Bersani. Non finiscono di raggiungerci i rapporti di Amnesty International, di Human Rights Watch, di molte agenzie dell’Onu sulla violazione dei diritti umani in Libia, nelle carceri dove sono rinchiusi migliaia di prigionieri politici, e per la realtà  dei migranti in fuga dalla miseria della grande Africa dell’interno. Contro i quali non è finita la vera e propria caccia all’uomo iniziata con la guerra civile. Il governo Berlusconi, con il voto bipartisan del parlamento, avviò un Trattato con Gheddafi che riconoscendo i misfatti coloniali italiani, stabiliva per l’Italia un ruolo di investitore in infrastrutture civili, sanciva per il nostro paese il ruolo di «partner numero uno», avendo però da Tripoli la garanzia del blocco dell’immigrazione «clandestina», con l’internamento dei migranti nei centri di detenzione libici, veri e propri campi di concentramento. Lo stesso Trattato è stato rinnovato dal governo Monti e da un recente viaggio in Libia del ministro degli interni Cancellieri.
Bersani, per assicurarsi, come dichiara, che «l’Italia vuole essere l’amico numero uno della Libia liberata». non sarà  mica andato a Tripoli a dare garanzie sulla continuità  di un Trattato così ingiusto?


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