Per il Quirinale nessun automatismo se l’esito delle urne non sarà  chiaro

by Sergio Segio | 20 Dicembre 2012 7:32

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ROMA — Altro che «forzature o frettolosità » sul giorno del voto, come recrimina il centrodestra che, dopo aver fatto precipitare la crisi, adesso voleva allungare i tempi. L’unica cosa che sta a cuore al presidente della Repubblica è «l’interesse del Paese». E in nome di quell’interesse — spiega — è bene che «non si prolunghi eccessivamente la campagna elettorale» data «la fase sempre critica e densa di incognite per l’Italia». Avvertimento che, dopo le valutazioni tecniche del ministro dell’Interno, significa aprire le urne il 24 febbraio. Non dopo. È il giorno «più agevole», scrive al Quirinale Annamaria Cancellieri. Sì, è «la data più idonea», concorda con sollievo Giorgio Napolitano, cui spetta «la prerogativa esclusiva» di sciogliere le Camere e far così scattare il conto alla rovescia.
Il nodo di calendario dell’ultima schermaglia politica sembra dunque sciolto. E il capo dello Stato formalizza la soluzione emersa a tarda sera dopo averla sollecitata ieri mattina con una secca nota ufficiale. Quando aveva ricordato, per scansare certe letture equivoche delle sue intenzioni, che egli aveva «ripetutamente auspicato che le elezioni si svolgessero alla scadenza naturale entro la prima metà  di aprile». Aggiungendo poi come siano peraltro «noti i fatti politici che hanno vanificato questa possibilità », cioè la rottura della maggioranza da parte del Pdl.
Pareva una riedizione della solita tattica politica dello stop and go, quella di Silvio Berlusconi. Cui aveva subito reagito un giustamente offeso Mario Monti, con l’annuncio delle sue dimissioni dopo il varo della legge di Stabilità . Solo che il Pdl ha invertito di colpo la rotta, pretendendo un rinvio (perché il Cavaliere potesse dilagare in tv prima della par condicio e, insieme, frenare la discesa in campo del premier uscente?) e minacciando ostruzionismi in aula. Un gioco inaccettabile, al quale alludeva il capo dello Stato con l’evocazione dell’«interesse del Paese» che nasce appunto dall’esigenza di «evitare il prolungamento di una condizione di incertezza istituzionale».
Ma se il caso della data del voto è finalmente chiuso, anche grazie al pressing del Quirinale, resta apertissimo il caso delle illazioni che si rincorrono sulle scelte del presidente quando si conoscerà  il responso delle urne. «Ha già  affidato il preincarico a Bersani», aveva commentato lunedì Angelino Alfano, dopo aver sentito il suo discorso di fine anno alle alte cariche dello Stato. «Ha fatto capire che il primo è primo e il secondo è secondo…», aveva concordato Giuliano Amato, come dire che sarà  premier chi prende un voto più degli altri. Un automatismo da non dare per scontato, ha invece precisato ieri Napolitano, in coda a una lettera alla Stampa per smentire «gelo, tensioni e distanze» nel suo rapporto con Monti.
Dopo aver cassato anche le letture impressioniste sul fatto che egli abbia omesso di indicare «come causa della brusca accelerazione verso la crisi» la mossa del Pdl, il capo dello Stato puntualizza: «Ogni decisione nascerà  dalle consultazioni post-elettorali e dagli elementi che ne trarrò sul da farsi, non essendo vincolato ad alcuna ipotesi precostituita». Che significa?, si sono domandati in molti. Che potrebbe anche non dare al segretario del Pd, dato per vincente da ogni sondaggio, l’incarico di formare il governo? Significa che, data la situazione confusa, si tiene le mani libere, valutando pure «un modello di comportamento convalidato da non pochi precedenti» dei suoi predecessori.
Traduciamo: la decisione di Napolitano — si sa — nascerà  dal combinato disposto tra esito del voto e consultazioni con i partiti. Se il risultato sarà  chiarissimo e inequivocabile e le indicazioni dei partiti della nuova maggioranza precise, non avrà  alternative. Se però restasse qualche incertezza (ad esempio al Senato) sulle prospettive di reale saldezza di quella maggioranza, allora potrebbe esplorare altre possibilità , qualora paiano più forti e politicamente accettate. Del resto, è già  successo più volte — con Spadolini, Craxi e Amato — che, in base ad accordi di coalizione, a Palazzo Chigi non andasse un leader del partito di maggioranza relativa, la Dc. Potrebbe accadere ancora, se il panorama del nuovo Parlamento fosse frammentato e il vincitore magari dimezzato. Potrebbe accadere anche in tempi di bipolarismo, visto che nel Porcellum il comma che indicava il «candidato premier» è stato sostituito con un non vincolante «capo della coalizione».

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