Palestinese ucciso a Hebron, rivolta e stato d’emergenza
Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, aveva dato il via libera all’esercito: aprire il fuoco contro i civili palestinesi, se rappresentano una minaccia. Mercoledì sera la minaccia si è incarnata in un giovane palestinese, Mohammed Ziad al-Sulaima.
Mohammed, 17 anni compiuti proprio mercoledì, è stato ucciso da sei colpi di fucile. Ad aprire il fuoco una soldatessa israeliana. Il giovane si trovava vicino alla Moschea di Abramo, ad Hebron, in piena area H2. Dal 1994 Hebron è divisa in due: H1, sotto il controllo palestinese; e H2 sotto quello israeliano. Un’occupazione nell’occupazione.
Mohammed aveva tra le mani una pistola giocattolo, secondo il portavoce dell’esercito Mickey Rosenfeld. Disarmato, secondo la famiglia. La soldatessa ha preso il fucile e sparato sei colpi. Mohammed è morto subito. Immediata la reazione della popolazione palestinese di Hebron: da mercoledì sera si susseguono gli scontri tra esercito israeliano e manifestanti. Da una parte gas lacrimogeni e proiettili di gomma, dall’altra pietre.
Ieri mattina, l’esercito israeliano ha dichiarato lo stato d’emergenza nella città , per l’intensificarsi delle proteste. Cinquemila palestinesi sono scesi per le strade di Hebron per gridare la loro rabbia durante i funerali del ragazzo, avvolto nella bandiera verde di Hamas. Decine di giovani si sono scontrati con le truppe israeliane: cinque feriti e quattro bambini arrestati.
A infiammare ulteriormente la comunità palestinese, l’arresto da parte dell’esercito di Tel Aviv del fratello e del cugino di Mohammed. Dopo la morte del giovane, le truppe d’occupazione sono entrate nella casa della sua famiglia e hanno stretto le manette ai polsi al cugino e al fratello, ex prigioniero palestinese rilasciato lo scorso anno nell’ambito dell’accordo tra Hamas e Israele per la liberazione del soldato dell’IDF Gilad Shalit.
Il padre di Mohammad, accorso sul posto per portare via il corpo del figlio, è stato allontanato con la forza dai soldati che lo hanno colpito alla gamba con un proiettile di gomma: l’uomo è stato ricoverato con lievi ferite.
Ma la tensione del dopo-Onu non si respira solo per le strade. I vertici israeliani intendono vendicarsi, attirandosi le critiche dell’Unione Europea che lunedì si è riunita per stabilire sanzioni contro Tel Aviv. Una discussione che non pare concretizzarsi, per le posizioni divergenti dei 27. Come spesso è accaduto in passato, l’Europa preferisce aspettare: «Vediamo cosa accade dopo le elezioni e se davvero Israele inizierà i lavori in area E1», ha commentato da Bruxelles un membro della delegazione francese.
Ma ad Israele non basta. Il premier Netanyahu accusa l’Autorità Palestinese di aver abbandonato il tavolo del negoziato mettendo in piedi un’iniziativa unilaterale che danneggia il processo di pace. Ma ieri il presidente Mahmoud Abbas ha risposto alle minacce israeliane, dicendosi pronto a riaprire il dialogo nel momento in cui Israele porrà fine ai piani di espansione coloniale in Cisgiordania.
L’apertura è giunta ieri durante la visita ufficiale della delegazione palestinese ad Ankara: Abbas ha annunciato l’intenzione di procedere legalmente contro Israele in un’azione congiunta con la rappresentanza diplomatica turca alle Nazioni Unite. Obiettivo, fermare il piano di costruzione di 3.000 nuove unità abitative in area E1, tra Gerusalemme e la Valle del Giordano, un progetto che spezzerebbe in due la Cisgiordania rendendo nella pratica impossibile la creazione di uno Stato di Palestina.
“Abbiamo raggiunto un’intesa con il governo turco su due punti – ha detto Abbas – Primo, un coordinamento con la rappresentanza turca alle Nazioni Unite e, secondo, l’assistenza legale degli esperti del Ministero degli Esteri turco”.
“Adesso abbiamo tra le mani nuovi strumenti per agire, in qualità di Stato riconosciuto dalle Nazioni Unite”, ha aggiunto Abbas: ovvero, la possibilità di rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia. Ora lo Stato occupato di Palestina, secondo il presidente dell’ANP, è in grado di far rispettare il diritto internazionale e di applicare la quarta Convenzione di Ginevra per fermare le colonie israeliana: “Abbiamo ottenuto molti diritti attraverso il riconoscimento come Stato non membro alle Nazioni Unite. Ma non ci presenteremo alle corti internazionali se Israele deciderà di tornare al negoziato”.
Uno scambio, quello proposto da Abbas: lo stop dell’espansione coloniale in cambio della rinuncia alla Corte Internazionale.
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