Ok alla corte internazionale ma niente reato di tortura

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È nata in Italia, approvata in Italia (e dall’Italia), ma fino a oggi il nostro paese non l’aveva ancora riconosciuta, nonostante dal 1999 abbia versato per il suo funzionamento circa 32 milioni di euro. Martedì la Camera ha dato il sì definitivo all’adeguamento del nostro ordinamento alla Corte Penale Internazionale (Cpi), organismo che ha il potere giuridico di perseguire i crimini di genocidio, guerra, schiavitù, apartheid, stupro, sterminio e tortura: uno scopo vitale, anche se nel suo decennio di vita, pur avendo istituito molti processi, la Corte è giunta a un un’unica condanna. Diventiamo il 121esimo paese che entra a far parte della Cpi in modo effettivo: tra i 139 firmatari del ’99, Israele, Usa e Russia non la ratificheranno, mentre Cina e India ne sono fuori (non a caso, tre quinti dei membri del Consiglio di Sicurezza Onu).
PERCHà‰ TANTA lentezza da parte italiana? “Proprio a causa dei paesi ‘forti’ che hanno di deciso di continuare ad agire in modo autonomo”, dice Roberto Rao, Udc, relatore alla Camera del disegno di legge: “Il loro ostruzionismo dipende dal fatto che preferiscono agire su questioni che li coinvolgono con accordi bilaterali. L’Italia ha tentennato a lungo per timore di creare inimicizie internazionali ma anche perché pensava che non sarebbe stata in grado di tutelare adeguatamente i propri militari all’estero”.
Si è dovuto dibattere a lungo, e adeguare le norme anche sulla questione spinosa del reato di tortura, che continua a non far parte del nostro ordinamento. “L’importanza di questa decisione tocca anche questo – dice Rao – Adesso possiamo dare il nostro contributo anche in casi del genere, pur avendo ‘aggirato’ la questione”. Aggirato nel senso che il Parlamento si è rifiutato di farlo.
Nonostante siano anni che l’Italia ha firmato la Convenzione Onu contro la tortura, l’ultimo tentativo di introdurre quel reato nel nostro codice è arrivato a settembre, ma l’aula del Senato ha detto no. “E dubito che per lungo tempo se ne parlerà  ancora”, chiosa Matteo Meccacci, deputato radicale e relatore dei disegni di legge sul tema: “L’ultimo stop è stato letale: con la maggioranza di centrodestra al Senato i numeri non ci saranno mai. Si tratta di chiamare le cose con il loro nome: adesso si parla di lesioni, minacce, ma il termine vero è tortura, così come riconosce la giurisprudenza internazionale”.
“Sul reato di tortura c’è una volontà  specifica di ostacolarne l’introduzione che dura ormai da più di un quarto di secolo. Per anni Amnesty ha mandato appelli a ministri e governi, ma il tema è tabù perché si teme di gettare lo stigma di torturatori sul corpo di polizia”, spiega Riccardo Noury portavoce di Amnesty International Italia. Il diritto internazionale prevede il reato “nei confronti dei pubblici ufficiali e questo non fa altro che rinvigorire il clima di sospetto tra cittadini e polizia. È paradossale che in processi come quelli di Bolzaneto o della Diaz non si siano potute chiamare le cose col loro nome”. A novembre, comunque, un altro passo avanti è stato fatto con l’approvazione dell’Opcat (il Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura dell’Onu, che prevede la possibilità  di istituire ispezioni internazionali all’interno a esempio degli istituti di pena). “Si spera – conclude Nouri – che così casi come quello di Stefano Cucchi non possano essere reiterati, ma resta in ogni caso un vuoto legislativo inaccettabile”. Riusciremo a fare anche l’ultimo passo? Si potrebbe chiedere a Cuno Tarfusser, italiano, ex procuratore di Bolzano, che pochi mesi fa è stato nominato vicedirettore della Cpi.


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