Nella stanza di Bocca
MILANO. TOCCA confessare un certo disagio, nel metter piede qui, dentro allo studio del Bocca un anno dopo che lui se n’è andato. È tutto così pulito e in ordine, intatto, vien da immaginare di vederlo comparire col passo da montanaro e uno dei pullover che gli regalava il suo amico Tai Missoni, e ci troverebbe a frugare e scrutare, e ci manderebbe a quel paese. È una grande stanza, comoda ma anche semplice, questa officina dove lavorava: un tavolone di legno massiccio, la poltroncina rossa con un cuscino a disegni kilim, il vecchio computer Olivetti M300, il grosso arnese che ha usato per tanti anni, e a malincuore ha abbandonato per un portatile più pratico.
Di fronte, la schiera di librerie da biblioteca, di quelle con le ruote, dove stanno forse 10 mila libri. Saggi e storia. Ben ordinati. Molti anni fa, a un giovane che gli chiedeva come fare il giornalista, diede questo consiglio: «Per prima cosa, catalogare i libri che si hanno, anche se sono pochi». L’archivio della sua biblioteca sta in una serie di scatole di cartone, ricoperte in carta di Firenze: le schede sono battute a macchina. Molte delle sue carte, custodite dentro a raccoglitori da ufficio, sono battute a macchina. A volte la carta è ingiallita. I ritagli di giornale incollati su fogli. Bocca usava computer e fax, ma era ancora di quelli da carta, e per fortuna. Se qui avessimo davanti una distesa di Cd, la sua memoria ne uscirebbe in qualche modo rattrappita e invisibile.
Qui nell’officina Bocca c’è poco di decorativo. Dietro la poltroncina, una stampa antica di Cuneo. Poco più in là , due ritratti a olio affiancati: Garibaldi e Vittorio Emanuele. Un grande quadro di Bruno Zoppetti, marito della figlia Nicoletta. Un suo famoso ritratto di Tullio Pericoli, amico da decenni. Nel corridoio che porta alla camera da letto, due stampe con gli imperatori di Roma, e l’ultimo è lui, Bocca, sempre a mano di Pericoli. Un regalo spiritoso di Silvia, sua moglie. Su una piccola cassettiera dal pia-
no di marmo bianco, foto dei familiari: moglie, figli, nipoti. E anche una cosa buffa, che racconta molto del Bocca. Un pupazzo di Gioppino, la maschera di Bergamo, di panno verde, con i tre gozzi. Gozzuto, come una volta in Piemonte chiamavano quelli delle valli cuneesi. Un regalo dell’architetto Andrea Branzi, e al collo di Gioppino il Bocca aveva appeso le sue onorificenze: la croce di cavaliere, e la medaglia d’argento al valor militare. Come dire: guardate cosa ne faccio delle vostre patacche.
La guerra partigiana, snodo della sua vita, perno fondamentale di una formazione. Gliene importava, eccome. Ma aveva il vezzo, la discrezione di non esibire i ricordi materiali di quell’esperienza. Non ci sono sue foto in armi. Per ritrovare le carte di allora, bisogna andare a frugare nel grande mobile scuro che sta in camera, davanti al letto semplicissimo dove un anno fa il Bocca è morto, vegliato dalla famiglia e dalle gatte Chiara e Valle. In quel mobile, ben nascoste, ci sono cose che probabilmente considerava preziose. Una raccolta di libri di cucina (sua grande passione, e il più amato è un settecentesco Il cuoco piemontese) e di guide, per lo più di montagna. E in basso, chiuse, alcune cartelle. Una, azzurra, con i riconoscimenti per il partigiano Bocca Giorgio di Enrico.
«Nel nome dei governi e dei popoli delle nazioni unite ringraziamo Bocca Giorgio di Enrico di aver combattuto il nemico sui campi di battaglia… Nel-l’Italia rinata i possessori di questo attestato saranno acclamati come patrioti che hanno combattuto per l’onore e la libertà ». L’intestazione (“Certificato al patriota Bocca Giorgio”) è in rosso, in fondo le firme del maresciallo H.R. Alexander (“comandante supremo alleato della forza nel Mediterraneo centrale”), del Capo della Banda, e dell’ufficiale alleato. Il “Brevetto di partigiano”, numero 014704, è firmato fra gli altri da Luigi Longo e Ferruccio Parri. Nella cartelletta c’è un foglio ingiallito, con il giudizio sul partigiano Bocca, e la firma è del “comandante della quinta zona Nuto Revelli”. C’è poi, sempre dattiloscritto, un lungo elenco delle operazioni principali guidate dal Bocca, a capo di una divisione di Giustizia e Libertà .
In un’altra cartella, il materiale per un libro che il Bocca non scrisse mai: la biografia di Alcide De Gasperi. Quella di Palmiro Togliatti aveva avuto un gran successo (con notevole aiuto, riconosciuto nella prima edizione, della moglie Silvia). Il De Gasperi non decollò: dopo qualche incontro con i protagonisti democristiani dell’epoca (e soprattutto dopo averci provato con Giulio Andreotti), Bocca lasciò perdere. Capì che i democristiani, a differenza di quel che i comunisti avevano fatto per il Togliatti, non erano disposti a collaborare. Eppure la cartella è piena: ci sono anche gli appunti su un libro di De Gasperi, I profughi in Austria.
Bocca lavorava così, nella sua officina: leggeva, studiava, organizzava, correggeva. È un luogo comune diffuso che il grande giornalista sia quello capace di buttar giù pagine su pagine, di getto. Lui faceva anche questo: lo chiamava magari il direttore mentre era a cena, al piano di sopra, chiedendo un commento. Lui finiva di cenare, scendeva le scale, ed era capace di scrivere tre cartelle in mezz’ora, velocissimo sulla tastiera.
Ma poi, giorno dopo giorno, lavorava duro e in profondità . Non ha mai smesso di studiare. Ci giocava, con la sua presunta rozzezza di montanaro, ma era in realtà un uomo coltissimo. I suoi libri sono pieni di sottolineature e note a matita. Così come lavorava per affinare la lingua, c’è molta fatica dietro al suo italiano chiaro ed essenziale. Aveva anche il vezzo di ostentare disinteresse per la narrativa: nella sua grande e ordinata biblioteca non c’è nemmeno un romanzo. Ma era un vezzo, appunto. I romanzi stanno da un’altra parte, mescolati a quelli di Silvia. Anche di narrativa leggeva moltissimo. Amava i classici della sua generazione. Molto Gide, e Montaigne, e Benjamin, e Gadda, pure quelli annotati e sottolineati.
Ebbene sì, come dice Silvia il Bocca «ha molto lavorato per imparare a scrivere». Negli ultimi anni gli piaceva indagare sul Male, sui “cattivi della Storia”, per esempio studiando la biografia di Albert Speer, l’architetto del nazismo.
Sempre in quel credenzone nella camera da letto teneva le raccolte dei suoi articoli. C’è la pagina famosa del Giorno, 14 gennaio 1962, con il reportage da Vigevano: titolo “Mille fabbriche nessuna libreria”, e quell’incipit che studiano nelle scuole di giornalismo «Fare soldi per fare soldi per fare soldi. Se esistono altre prospettive, chiedo scusa ma non le ho viste ». C’è un articolo sullo smog a Milano, del 16 novembre 1961, titolo “La bella libertà di morire soffocati”, e l’illustrazione è di un giovane Tullio Pericoli. Sempre del ’61 – sono gli anni in cui il Giorno ribalta le muffe del giornalismo italiano – un altro pezzo: “Bagno di marmo uomo arrivato”, dove Bocca racconta «la pornografia banale di una certa Milano gratificata dal boom economico». Anche qui un’illustrazione di Pericoli, bellissima. O un reportage dalla Thailandia, sovrastato da due grandi foto di una leonessa che a Nairobi gioca a palla, titolo “Farebbe impazzire gli stadi”. Anche questo accostamento ribalta, ma chissà quanto deve aver sacramentato il Bocca reduce da Bangkok. Si vede che allora usava: c’è un suo pezzo per l’Europeo (“Il martire recidivo – L’eretico Milovan Gilas verso la quarta condanna”) schiacciato sotto una foto di Gregory Peck. E ancora, sempre nascoste nel credenzone dal riserbo del ruvido Bocca, le raccolte di Repubblica e dell’Espresso. La leggendaria ultima intervista al generale Dalla Chiesa. E, in fondo in fondo, le recensioni dei suoi libri tradotti all’estero, Giappone compreso. Tutta una vita di lavoro, tutta una memoria. Però appartata e lontana dall’officina dove, fino all’ultimo, il Bocca ha lavorato guardando avanti
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