Nel villaggio dei cristiani decimati dalla guerra

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GHESSANIE (Siria) — Lo troviamo nella tana del lupo, padre Francesco, in un fumoso scantinato dove, tra un turno di guardia e l’altro, s’accalcano i giovanissimi combattenti dell’Esercito siriano libero, nuovi padroni della città . Rivolgendosi a loro per chiedere cibo e legna da distribuire alla sua gente, il religioso usa lo stesso tono morbido e convincente con cui poco più tardi dirà  la messa nella chiesa dell’Assunta di Ghessanie, cittadina conquistata dai ribelli un mese fa, e da allora quotidianamente
bombardata dalle truppe del regime di Damasco, appostate a meno di un chilometro da qui. Gli insorti sembrano intimoriti dal religioso, perché ha l’età  dei loro padri ma anche per l’aura di povertà  e di misticismo che l’avvolge e che viene accentuata dal saio e dal logoro cappotto che indossa. Di loro, esprimendosi in un italiano privo di accento, pur essendo nato sulle alture del Golan quando queste erano ancora siriane, padre Francesco dice: «Sono bravi ragazzi, che ci aiutano come possono, dimostrandoci di continuo la loro gentilezza. Non è vero, come alcuni sostengono, che la Siria sia divisa dalle minoranze. Pensarlo rafforza la propaganda che ha scatenato la guerra civile».
Proprio per infrangere questa propaganda, gli insorti trattano con ogni riguardo padre Francesco e i pochi cristiani rimasti a Ghessanie, che dista una sessantina di chilometri da Aleppo e che conta tre chiese: una cattolica, una greco-ortodossa e una protestante. Gli insorti vogliono dimostrare che non sono “terroristi”, come invece li dipinge il regime, e che se dovessero vincere, cristiani, drusi, alauiti e sunniti ritornerebbero a convivere pacificamente. Tutto deve perciò filare liscio, perché a Ghessanie la coabitazione tra fedi diverse può prefigurare il futuro della Siria. «Vorrebbero fermare la fuga degli abitanti verso le grandi città , ma qui la gente è terrorizzata dalle bombe che ci piovono addosso, dagli uomini in armi, dalla guerra», spiega padre Francesco.
A tratti, la paura sembra balenare anche nello sguardo di quest’uomo di chiesa, un ex francescano che definisce «la sua spiritualità  sempre più benedettina». Nei suoi occhi traspare a volte il timore che domani le cose possano improvvisamente peggiorare.
Ma quando gli chiediamo se vive nello spavento e nell’affanno, com’è giusto che sia la risposta che ci fornisce è quella del prete, non dell’uomo: «Ho fede in Cristo, perciò non ho paura. Se il Signore vuole la mia morte, accetterò anche quella. E comunque finché qui rimarrà  un solo cristiano, io rimarrò con lui».
Ghessanie appartiene a quella Siria rurale dove il terrorismo islamico non attecchisce e dove i soldati dell’Esercito siriano libero sono tutti contadini o artigiani o studenti dei villaggi vicini. Li riconosci dalle facce pulite, dalla loro garbata cortesia, dal fatto che non la smettano di ringraziarci per essere venuti fin qui a raccontare la loro rivolta. «Lo sa qual è il fardello più pesante di questi giorni bui? È l’incertezza», prosegue padre Francesco. Quando gli insorti presero Ghessanie, alcuni facinorosi ruppero una croce e alcune statuette della Vergine nel giardino della chiesa. «Ma è un episodio che ho già  dimenticato», minimizza il prete, spiegando che dopo l’accaduto andò egli stesso a parlare con il capitano della brigata e che da allora nulla del genere si è più ripetuto. «Tutti i giorni dico messa alle quattro del pomeriggio, con le porte aperte, e non ho mai avuto problemi».
Delle tremila persone che vivevano in città  prima che scoppiasse la rivoluzione è rimasta soltanto una decina di famiglie, per lo più cattoliche. Quando proviamo a parlare con i pochi superstiti, li scopriamo sospettosi, perché, come ci dirà  padre Francesco, temono per i loro figli che adesso vivono nelle zone ancora controllate dal regime. «Sanno che una parola di troppo può costarti la prigione e magari la tortura. E sanno anche che se loro sono oggi al riparo dalla repressione, i loro cari, emigrati ad Aleppo o Damasco, non lo sono più».
Con la progressiva avanzata degli insorti, Ghessanie è solo un caso tra molti. Se ad Hasake, nel nord, i cristiani hanno chiesto all’Esercito libero siriano di non entrare, per paura delle rappresaglie aeree del regime, a Yabrub, un centinaio di chilometri da Damasco, hanno addirittura combattuto al fianco dei salafiti, fraternizzando con essi. Tuttavia, osservando il mal celato terrore dei cattolici che ancora risiedono a Ghessanie, ci si chiede se questi non siano costretti a far buon viso a cattivo gioco. E nasce il dubbio che non siano ancora scappati solo per non perdere casa e chiesa. Da parte degli insorti c’è invece l’indubbia volontà  di mostrare il lato più virtuoso della rivolta. Per il momento, grazie al tessuto sociale interreligioso tipico della Siria, soprattutto di quella contadina, la convivenza funziona.


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