NAZIONALIZZARE, NON BASTA LA PAROLA

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Ma era comunque da trent’anni che non si sentivano più quelle parole. Al loro posto si parlava e si parla solo di “privatizzazioni” o – ma è solo un modo per mascherare la sostanza della prima – di “liberalizzazioni”. E non se ne parla soltanto; le hanno fatte e continuano a farle; salvo poi nazionalizzare, senza dirlo, le banche per salvarle dal crack. Ma solo temporaneamente, per poi restituire subito tutto ai legittimi speculatori che continuano a controllarle.
La privatizzazione più celebre ed esemplare del mondo è forse quella dell’Alitalia promossa, per fare vincere le elezioni del 2008 a Berlusconi, dal ministro Passera quando dirigeva la banca Intesa-San Paolo. E’ costata 3 miliardi ai contribuenti e ne costerà  ancora altri, ma ciascuno dei compratori che hanno messo un po’ di soldi “a perdere” per entrare in un’azienda che Air France avrebbe comprato a condizioni mille volte più favorevoli ha poi avuto una consistente contropartita.
Alla famiglia Riva, che ci ha messo più soldi di tutti, è stata concessa un’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) fabbricata su misura per consentire all’Ilva di continuare a fare strage di lavoratori e di cittadini, più la garanzia che neppure quella sarebbe stata rispettata. Do ut des, dicevano gli antichi. Garante dell’accordo, il ministro Clini, allora, e da oltre 10 anni, direttore e vero dominus del ministero dell’Ambiente, dato che in quel periodo a succedersi nel ruolo di ministro era stata una sfilza di personaggi incompetenti, ignoranti, imbroglioni o decisamente deficienti, con tanti saluti per l’oggetto del loro incarico.
CONTINUA|PAGINA15 Se vogliamo parlare di privatizzazioni, oltre a Ilva, ceduta quasi gratis ai Riva, possiamo citare il resto di Italsider ceduto alla famiglia Lucchini, e da questa alla Severstal, che adesso sta liquidando tutti gli impianti, lavoratori compresi, e al gruppo ThyssenKrupp, che se ne va anche lui, dopo aver ammazzato un bel po’ di operai. O l’Alcoa, che se ne è andata una volta finiti gli incentivi che le hanno fruttato miliardi a spese delle nostre bollette elettriche. O Telecom, regalata prima agli Agnelli con la gestione Rossignolo, poi assegnata al superprotetto Bernabé, poi conquistata dai “capitani coraggiosi” di D’Alema, che ci hanno fatto sopra plusvalenze di miliardi, poi acquisita dalla Pirelli di Tronchetti Provera, che ne ha fatto una centrale di spionaggio a proprio uso e consumo, per ritornare a Bernabè che oggi è poco più di un ufficiale liquidatore; perdendo peraltro per strada importanti fornitori come Siemens Italia, Telettra ed altri gioielli tecnologici acquisiti da gruppi come Alcatel, e poi da Lucent, che la sta liquidando, o privatizzati da Nokia-Siemens, che ne ha fatto il veicolo di una truffa internazionale attraverso il marchio Jabil: tutte operazioni fatte anche queste a spese dei lavoratori. Oppure l’AlfaRomeo, inghiottita nella voragine della Fiat; o Motta Alemagna, grandi marchi scomparsi con i loro operai; eccetera, eccetera, eccetera.
Per non parlare della Cassa Depositi e Prestiti, nata per finanziare le opere pubbliche e le imprese di comuni e province e trasformata, con la sua privatizzazione, in una piovra impegnata a spogliare gli enti locali delle loro ex-municipalizzate e a finanziare autostrade in dissesto e grandi opere inutili. O delle BIN (Banche di Interesse Nazionale) ora sull’orlo del collasso perché impegnate, una volta “privatizzate”, solo a “crescere” speculando invece di fare il loro mestiere, che era il credito a imprese e famiglie (famiglie e non famigghie!) e per questo imbottite di prestiti inesigibili concessi a immobiliaristi come Ligresti, Zunino e compagnia; o, ancora, della Banca Nazionale del Lavoro (del Lavoro: avrà  pur significato qualcosa questo termine, quando la banca era nata come Istituto di Credito per la Cooperazione!), ora dissolta insieme al suo personale tra le fauci di Paribas, dopo essere scampata a quelle del Pd. «Abbiamo una banca!», aveva esultato Fassino intercettato da Berlusconi. Ma c’era poco da esultare: di banche ne avevano già  una, il Monte dei Paschi, e abbiamo visto che fine ha fatto proprio grazie alla sua privatizzazione. Insomma, l’elenco delle privatizzazioni italiane – ma non solo di quelle – è un cimitero di imprese e di lavoratori: sono altrettanti casi di studio che andrebbero, questi sì, insegnati alla Bocconi al posto delle scemenze («Niente funziona se non è privato») propagandate dal professor Monti che ne ha diretto e continua a ispirarne i programmi.
Ma è certo che l’ultima cosa che Passera pensa di fare è espropriare i Riva, una famiglia di pirati (uno agli arresti domiciliari e l’altro latitante) a cui sono stati invece affidati non solo il risanamento di una fabbrica trasformata, sotto la loro gestione, in una macchina di morte, per sfruttare gli impianti senza rinnovarli fino all’esaurimento, ma persino la salvaguardia del Pil italiano, messo in forse dai magistrati tarantini. Ma il problema si porrà  nuovamente se e quando i Riva cercheranno di sottrarsi ai loro obblighi, magari con un bel fallimento. Passera però ha tirato fuori la storia dell’esproprio solo per coprire l’operato di un governo – il suo; e anche quello che aspira a dirigere dopo le elezioni – che in un anno ha cercato, e in parte è riuscito, ad azzerare, in perfetta continuità  con Berlusconi, il voto dei referendum contro la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali; e poi la sentenza della Corte Costituzionale che dichiarava illegittime quelle norme e, ora, anche le ordinanze e le funzioni della magistratura di Taranto. Il tutto controfirmato dal supremo custode della Costituzione, Giorgio Napolitano. Se è questa la democrazia per quelli che sostengono il governo Monti, e che si apprestano a sostenerne la continuità , meglio erigere al più presto una barricata. “Cambiare si può”.
D’altronde, che cosa potrebbe mai fare dell’Ilva il Governo, dopo averla espropriata, requisita o nazionalizzata? Lasciarla in gestione ai “quadri” messi lì dalla famiglia Riva con il solo scopo di trasformare la fabbrica in un Lager? Riva è già  stato condannato per l’istituzione di un reparto confino e per inquinamento, e oggi governa lo stabilimento con una rete di “fiduciari dell’azienda”, non inseriti nell’organico della fabbrica, e per questo in grado di dare ordini illegali senza assumersene la responsabilità . Oppure venderla a un suo pari o a un gruppo che la compra per chiuderla e impadronirsi del mercato italiano? O sostituire quei quadri così compromessi con quelli di un’industria di Stato che non esiste più? Una volta c’era l’IRI, che era anche una importante scuola di management. E’ vero che i suoi quadri erano stati poco per volta scalzati da ladri di stato, provenienti dal pozzo senza fondo dei partiti, che avevano portato quelle imprese al disastro. Ma molti di quei quadri e di quei processi di formazione dell’IRI restavano pur sempre a disposizione di chi si fosse ritrovato nella necessità  di sostituire rapidamente un management da esautorare perché criminale. Oggi invece c’è il deserto. Se mai un governo decidesse di nazionalizzare l’Ilva, come spesso chiedono Bertinotti e altri come lui, con quali uomini la governerebbe? Per questo, a salvare ambiente, produzione e occupazione non saranno certo gli uomini dei Riva, e meno che mai il prefetto Ferrante, uomo per tutte le stagioni, che qualche anno fa ha già  messo a disposizione nome e curriculum per coprire il disastro provocato dall’Impregilo con i rifiuti della Campania; ma nemmeno i manager dell’industria di Stato che non ci sono più e che comunque, in una situazione come questa, non avrebbero assolutamente la cultura per farlo. Si dovrebbe ricominciare da zero nel crearli e nel formarli.
Allora tanto vale cominciare, non da zero, ma da quello che già  c’è, per imboccare una strada del tutto diversa. E quello che c’è è il “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti”, che quella fabbrica la conosce perfettamente come conosce perfettamente la città  e i suoi malanni, ed è ben radicato in entrambe. Ma che ha anche i collegamenti e i titoli per chiamare a raccolta una miriade di competenze tecniche, economiche, ambientali, sanitarie e sociali per costituire innanzitutto il nucleo di una struttura di controllo sulle prossime mosse del management aziendale e dei governi, sia quello nazionale che quelli locali; ma poi anche per candidarsi alla gestione del risanamento del sito e del territorio e di una produzione siderurgica ridimensionata e impostata su basi nuove e più sane. Un Consiglio di gestione partecipato per promuovere la conversione ecologica dell’impianto che prefiguri, pur in un regime giuridico che non concepisce, per ora, niente di diverso dall’alternativa tra proprietà  privata e proprietà  pubblica, le modalità  di una gestione dell’impresa come bene comune; e di un’economia e di una produzione improntate ai principi della sostenibilità  sociale e ambientale.
Può sembrare un’utopia, e lo è; ma è “utopia concreta”. Molto più concreta e realistica dell’ipotesi insensata di riaffidare la gestione di un’impresa delle dimensioni dell’Ilva a una famiglia criminogena, o di vendere l’impianto a un acquirente, magari estero, che lo porterebbe a una sicura chiusura e all’abbandono del sito così com’è; o di tornare alla gestione tradizionale di un’impresa “nazionalizzata”, affidandola a un management che non c’è e che non ci sarà  mai più. Da qualunque parte lo si guardi, il futuro dell’Ilva va posto in mano di quei cittadini e lavoratori che con la loro lotta e le loro contestazioni stanno mettendo gli attuali padroni con le spalle al muro (www.guidoviale.it).


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