Nazionalizzare, fautori e oppositori

by Sergio Segio | 12 Dicembre 2012 7:50

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La storia del diritto del lavoro – ricostruita nel recente manuale di Fabio Mazziotti (non a caso, assistente che curò la mia tesi)- dimostra il non casuale ripetersi del tentativo di dare a questa norma il valore di mero principio generico, la cui attuazione necessiterebbe dell’intervento discrezionale del legislatore. Gli anni di massima attenzione a questa norma sono stati quelli del dopoguerra, in cui la classe lavoratrice viveva nell’incubo della disoccupazione e i governi centristi spingevano, con elargizioni, l’industria ad assorbire mano d’opera, a rinnovarsi sul piano tecnologico, per divenire competitiva sui mercati internazionali. Erano anche gli anni, in cui la grande disoccupazione coincideva con prassi discriminatorie nelle assunzioni, nello svolgimento e nella risoluzione del rapporto contrattuale (si parlava del bastone nelle fabbriche), tali da incidere non solo sulla libertà  di scelta e di esplicazione del lavoro, ma anche su numerosi diritti fondamentali , previsti dalla Costituzione (artt. 13,17,18,21,39,49).
I giuristi dell’epoca ( Mortati, Giannini, Natoli, Crisafulli) si impegnarono a delineare il contenuto e il modo di attuazione di questo diritto sancito dalla Costituzione consentendo di giungere alla persuasiva tesi della sua natura di diritto sociale (Federico Mancini, Mazziotti), tale cioè che, pur non azionabile direttamente in sede giudiziaria, costituisce direttiva dell’azione dei pubblici poteri e pretesa dei cittadini a interventi pubblici finalizzati a elevare i livelli occupazionali. Questo intervento presuppone una politica statale funzionale non solo alla creazione di nuovi posti di lavoro, ma anche alla tutela del diritto alla conservazione per chi il posto di lavoro lo ha conseguito.
Mancini ci ricorda che dalla rivoluzione borghese del 1790 si parla del dovere dello Stato di procurare lavoro ai cittadini; da allora, nei testi costituzionali e nelle grandi scuole di pensiero del nostro continente, questo dovere trova stabile riconoscimento, con un’ulteriore conferma, per la nostra Costituzione (art.3 co.2, che svolge una funzione integrativa e parallela a quella dell’art.4 co.1): una politica del pieno impiego è funzionale a soddisfare la prima e più elementare condizione di partecipazione dei cittadini.
Mi è stato insegnato che questa strategia ha come protagonista uno Stato, che oltre che finanziatore degli investimenti dei privati, sia imprenditore lui stesso, nell’ambito di un nuovo rapporto tra impresa privata e prosperità  collettiva. Sulla politica degli investimenti si intrecciò una polemica tra forze politiche e culturali – secondo cui la funzione salvifica dell’azione pubblica deve coniugarsi con maggiori controlli da parte del generoso finanziatore- e forze politiche (e anche militari), che vittoriosamente si opposero alla svolta di un’economia mista, fatta di imprenditoria pubblica e privata, coordinate in una comune strategia sociale (su artt. 41 e 43 della Costituzione, ha scritto A.Lucarelli). Da allora, la storia ci mostra una serie di dismissioni (vedi Ermanno Rea per l’Italsider di Bagnoli), di privatizzazioni ( per gli effetti negativi, leggere G.Viale).
Nel sintetizzare la posizione degli sconfitti, va citato un intervento nel marzo 1961del suo principale protagonista, Riccardo Lombardi, secondo cui lo Stato «è oggi anche struttura… non è solo organizzazione delle scuole, dei tribunali, della polizia, dell’esercito, ma anche imprenditore, che possiede e dirige un notevole settore dell’economia….». Di qui l’esigenza di riforme radicali del quadro istituzionale, dell’ordinamento proprietario, del meccanismo di destinazione degli investimenti. Questi argomenti costituirono l’oggetto del convegno delle riviste Il Mondo, L’Espresso, Critica Sociale, Mondo Operaio, Nord e Sud, Il Ponte. La relazione del comitato promotore – letta da Eugenio Scalfari il 28 ottobre 1961- rilevava l’ambizione di «passare da una casistica riformista ad una politica di piano, per uscire da un decennio nettamente dominato da uno sviluppo squilibrato nella produzione e nella distribuzione della ricchezza … Non si tratta di abolire il mercato, ma di farlo funzionare in presenza di condizioni diverse…La prima di queste preliminari modifiche di struttura riguarda l’industria elettrica e nucleare, di cui è indispensabile la nazionalizzazione…». Nel dibattito alla Camera nel gennaio-febbraio 1961 , sulla “politica meridionalistica”, il leader repubblicano La Malfa, avvertì che bisognava «piantarla con questi pregiudizi ottocenteschi che una economia di mercato non debba mai usare la parola pianificazione, perché questa è una delle forme concettuali più arretrate del nostro pensiero economico e della nostra politica economica».
Questa politica inciampa nella vincente opposizione di chi non intendeva accettare limiti ai diritti dell’impresa, attraverso lo strumento della pianificazione; opposizione, che ebbe un’articolazione anomala, emersa grazie anche alle indagini della Commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti del giugno-luglio 1964 (istituita nel 1969); della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e di due sentenze del tribunale di Roma (1970 e 2001), in tema di diffamazione (riportate,insieme ad altre fonti, da M.Franzinelli, in Il Piano Solo, Mondadori, 2010).
In questi atti è stata esaminata una fascia temporale (aprile-giugno 1964), nel corso della quale fu riesaminato e attualizzato un piano concernente l’ordine pubblico (Piano Solo), in contemporanea all’ incertezza politica e ai timori, determinati dal programma del primo governo di centro sinistra, con diretta partecipazione del Psi, incentrato su riforme di struttura e sulla programmazione economica; varato nel dicembre del 1963, con alla guida Aldo Moro, durò poco, fino alla dimissioni del 25 giugno 1964 , seguite da non serene trattative per la sua riedizione moderata.
La procedura fissata dal Piano Solo prevedeva che, a seguito di un ordine del comando generale dell’Arma, redatto per iscritto o formulato con una telefonata, i carabinieri, guidati da comandanti delle divisioni di Milano, Roma,Napoli e da comandanti delle legioni, di notte o di primo mattino, dovevano penetrare nelle abitazioni di 731 cittadini, ritenuti responsabili o ritenuti pericolosi per la sicurezza dello Stato. La lista degli enucleandi si è persa, ma la commissione sul terrorismo ha accertato che i nomi erano stati tratti da un documento (Rubrica E), nel quale erano indicate persone “controindicate” per la sicurezza dello Stato, tra cui anche parlamentari (quali Pajetta, Scoccimarro, Boldrini, Brodolini).
Al vertice di questa operazione di sicurezza era stato collocato il generale De Lorenzo (che non ha accettato il marchio di militare infedele), animato da mire di un governo militare: nell’interrogatorio, 21 marzo 1968, la commissione guidata dal generale Lombardi, pone questa contorta, ma chiara, domanda, a cui segue una risposta illuminante: «Ma quale è il motivo per cui avendoti varato con Segni, cioè il binomio, perché tu eri il braccio destro, il braccio forte di Segni, il quale era la mente di questa faccenda, ad un bel momento Segni lo hanno messo completamente fuori…l’hanno scagionato completamente». Risposta: «Ma evidentemente loro avranno avuto degli accordi …si è parlato che andare addosso a Segni gli irritava l’opinione pubblica…il fatto che abbiano aggredito me ha salvato i democristiani e ha fatto cadere l’azione social-comunista».
Non è questa la sede per verificare il carattere decisivo del minacciato golpe sui pesanti cedimenti fatti nelle trattative, concluse il 16 luglio 1964; sta di fatto che Nenni, il 26 luglio, nello stesso giorno in cui l’on. Moro annunciava la formazione del governo, pubblicò un articolo sull’Avanti, in cui affermava che «improvvisamente i partiti e il Parlamento hanno avvertito che potevano essere scavalcati». Il presidente della Repubblica, colto da ictus il 7 agosto 1964, non è mai stato chiamato a rispondere di questi fatti. Rinviando ai saggi, oltre che di Franzinelli, di S.Colarizi, T.Nencioni, C. Pinto sul riformismo dei primi anni ’60, si può concludere con la rassicurante constatazione che, nell’attuale situazione culturale e politica, non c’è pericolo di trovare, in un’aggiornata lista di enucleandi, i nomi di componenti del governo dimissionario e di magistrati tarantini, quali responsabili del riaffacciarsi dello spettro delle nazionalizzazioni e del controllo pubblico dell’apparato produttivo. E, infine, con la constatazione della necessità  di una riflessione sul progetto di Lombardi di un maggior controllo statale sull’imprenditoria privata, alla luce del non esaltante effetto, sui diritti fondamentali dei cittadini, della vigenza esclusiva della legge del libero mercato.

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