Napolitano e l’invito agli italiani: bisogna chiedere conto ai politici
ROMA — Ai leader politici bisogna chiedere conto di impegni concreti. Sempre. E più che mai quando ci si trova alla vigilia di un voto importante. Bisogna cioè che i cittadini verifichino un passo dopo l’altro quello che dicono i partiti, sapendo che su ciascuno di loro incombe un dovere misurabile su tre versanti: 1) devono avanzare le proposte più utili all’intera comunità nazionale; 2) devono dimostrarne la sostenibilità , economica ma anche sociale; 3) devono realizzare le proprie proposte in modo convincente, completo e coerente.
Dovrebbe fare perno soprattutto su questa esortazione — che suona scontata in ogni democrazia matura, ma che tale non sembra, da noi — il discorso di fine anno agli italiani di Giorgio Napolitano, domani sera, in diretta tv all’ora di cena. Un appello a sorvegliare gli impegni che le forze politiche si assumono in pubblico, così da vincolarle a riformare il sistema e ad autoriformarsi attraverso uno scatto di responsabilità in grado di farci completare la «transizione incompiuta» nella quale siamo da troppo tempo paralizzati. E, per inciso, tra gli indicatori di come il Paese resti in mezzo al guado, ostaggio di un bipolarismo isterico e che non contempla evoluzioni positive, è sufficiente la pretesa politico-mediatica di azzardare ogni giorno la temperatura degli umori del presidente verso Mario Monti, premier tecnico «salito in politica» e divenuto quindi a tutti gli effetti un competitor tra gli altri. Temperatura che si vorrebbe fredda, anzi gelida, mentre il Quirinale si affanna a precisare che lassù non si pronunciano «né avalli né veti», «né sostegni né scomuniche», verso chicchessia. E si spiega semmai che il capo dello Stato vigilerà erga omnes, senza pregiudizi, in questa stagione elettorale che si preannuncia (per restare alla metafora del termometro) rovente e comunque tale da chiamare in causa pure lui.
Smentite e puntualizzazioni che cadono nel vuoto, visto che la neutralità non pare ammessa. Succede anche a poche ore dal settimo e ultimo messaggio da inquilino del Colle che Napolitano lancerà al Paese nella notte di San Silvestro. Il primo, nella storia repubblicana, a cadere durante una campagna elettorale che ci porterà alle urne il 24 febbraio, cioè in inverno (l’unico precedente assimilabile risale al 16 novembre 1919, quando c’era la monarchia). Un monologo che il presidente sta ancora limando di proprio pugno, così da contenerlo nell’arco di 15-20 minuti ai quali ci ha abituato, e i cui concetti dovrebbero essere presi in buona parte dal discorso alle Alte Cariche dello Stato da lui tenuto il 17 dicembre, nel Salone dei Corazzieri.
Il testo di quella riflessione, indirizzata al mondo politico e istituzionale, era stato poi diffuso con un titolo eloquente: «Nel brusco esito finale della legislatura non si bruci il recupero di fiducia nell’Italia». Due righe che esprimevano un giudizio (tagliente) e un auspicio (accorato), entrambi giocati sulla parola «fiducia». «Fiducia» era quella che di colpo veniva sottratta al governo da parte del Pdl, facendoci precipitare verso lo scioglimento anticipato delle Camere e mutilando il completamento di provvedimenti già vicini al varo. E «fiducia» era, ancora, quel patrimonio di credibilità del Paese che l’esecutivo, in soli 13 mesi, aveva riconquistato in Europa e che «il fuoco della battaglia elettorale» potrebbe annichilire.
Ecco il timore forse più grande di Napolitano. Il quale, rivolgendosi domani alla gente comune, potrebbe mutuare il suo doppio richiamo con una formula più o meno di questo tenore: l’Italia si è salvata, almeno provvisoriamente… e anche la politica ce la può fare, a patto che i cittadini la incalzino e controllino affinché parli il linguaggio della verità . Come ha ripetuto più volte, infatti, «è in gioco il Paese, il nostro comune futuro, e non solo un fascio di voti per questo o quel partito». Il problema, se si assume questa consapevolezza, è quello di colmare i troppi passi mancanti lungo il percorso delle riforme, di sanare «i ritardi e le resistenze» culminate in «un’altra legislatura perduta» sull’altare delle «peggiori logiche conflittuali» e da cui si sta alimentando «il corso limaccioso dell’antipolitica e il qualunquismo istituzionale».
Scenari desolanti, ai quali si è aggiunta una nuova questione morale con «il clamoroso esplodere di indegni abusi di danaro pubblico» e che il presidente ha descritto a tanti interlocutori «con amarezza e preoccupazione». Sono temi che toccherà nel messaggio di fine anno, che sarà impossibile non abbia un’intonazione un po’ ansiogena, insieme ad altre drammatiche questioni aperte cui è sensibilissimo. Ad esempio «la fatica sociale» imposta dalla crisi, assieme al disagio ormai insopportabile dei ceti più poveri. La disoccupazione aggravata dalla disperazione dei giovani che si sono arresi e un lavoro non lo cercano nemmeno più. La difficoltà di far ripartire la crescita, associata a uno scetticismo sbrigativo e ultrarivendicativo verso l’Unione Europea.
«Non c’è da temere per le elezioni», ragionava Napolitano nelle settimane scorse, citando Benedetto Croce. «Il voto è di per sé una prova di democrazia… purché si sappia porre un limite alla discordia».
Marzio Breda
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