Movimenti e pause di un poeta nel ’68

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Le leggi, le divinità , il corpo stesso degli dei: questi sono fatti a nostra immagine e somiglianza. Dunque un poeta che immagina la grammatica della rivoluzione non la immagina come un non-poeta. Il numero di individui affetti da poesia, che pensano un mondo «gentile» e giusto come quello che la loro mente produce quando secerne poesia, è statisticamente inferiore a quello di chi, mosso da un disegno ideale, desideri tessere i legamenti di una rivoluzione sommuovendo una realtà  in atto. Ecco il nodo problematico della dissociazione, prima interiore e poi agita, tra Umberto Piersanti e il Sessantotto.
Salvo rare eccezioni, l’organismo spirituale dei poeti inclina alla pace. Postuliamo dunque un venticinquenne (un tipo «decadente», nella spiccia traduzione dei compagni studenti rivoluzionari che gli sono coevi) colpito per intima propensione dal colore delle foglie e dei fiori – e forse soprattutto dal gusto dei loro nomi -, dal canto degli uccelli e degli uomini e dalla dolcezza delle donne – e chiediamoci cosa possa sentire un simile soggetto quando si accorge che la rivoluzione, alla quale i suoi sentimenti aderiscono interamente, comincia a significare tirare pietre addosso ad altri esseri umani. Riteniamo che nel ragazzo si verifichi un impedimento fisico ancora prima che etico, un impaccio nel meccanismo-corpo, impossibile da azionare se piazzato in postura aggressiva. Cupo tempo gentile di Umberto Piersanti (Marcos y Marcos, pp. 222, euro 18) mette in scena l’evoluzione del sentimento di un siffatto ragazzo, rimette in opera il conflitto tra ideale e reale che ha lavorato sotterraneamente e infine alla piena luce del sole occidentale nel secolo scorso, creando crolli ripetuti e ripetuti risorgimenti: di ideali, di muri e di speranze, di assesti ed equilibri planetari. Si tratta cioè di esaminare ancora una volta l’idea bellissima di comunismo e la sua traduzione nell’antropologia umana.
Gli uomini ahimé non sono tutti adulti, non tutti gentili. Il cupo tempo di Piersanti comincia con il mettere in scena lo sguardo superegoico di Andrea, un eteronimo che pensa e guarda da poeta: la violenza dei poeti si concentra tutta nelle parole, in una lingua sempre esattissima e impietosa, acuminata o dura, febbrile e rivoluzionaria – oppure fitta di oasi paesaggistiche come quella del mite Andrea. Umberto-Andrea – cioè l’autore Piersanti – sembra farlo apposta: nel bel mezzo dell’azione, come a controfirmare a distanza di anni la propria dichiarazione di esistenza in vita, la propria cocciuta richiesta di legittimazione, si prende il tempo per contemplare il paesaggio, portandolo in pagina con espressioni a volte davvero felici: Le ginestre spoglie dell’inverno corrono giù a branchi, per balze ripide, verso il mare. Prima di tutto Andrea senza le parole si sente invisibile, dunque ha bisogno di tradurre in verbo anche quello che vede quando va alla cerca di attimi muti di pura bellezza e irrisorietà , quando aspira a essere solo un fiore o una purissima bestia. Ma soprattutto: le descrizioni, queste pause «estetizzanti» nell’evidenza rivoluzionaria, rappresentano una continua rivelazione del mondo e dunque una rivoluzione sommersa – e prematura forse perché non violenta: il promemoria del nostro essere molecole della immensa e rigogliosa natura, premessa psicologica indispensabile alla «gentilezza».
Se inoltre l’estetica ha qualche radice comune con l’etica, le digressioni naturalistiche di Andrea sono nudi apparati di accoglienza. Andrea, libero come sono liberi i poeti (e altrettanto solo) manifesta la volontà  di mantenere uno sguardo individuale nel collettivo. Lo confessa, poi, che anche quando andava tutto bene c’era sempre qualcosa nella testa. Dunque lo sguardo spontaneamente gli posa su quanto dà  pace, fuori di sé, nel mondo naturale che è vivissimo e immobile, entra nel tempo del regno naturale, che dà  alle cose umane una proporzione ridicola. Soprattutto se tutto questo avviene mentre l’impronta di una scarpa umana calca la bianca cenere lunare. Eppure, questo sguardo impregnato di filosofia naturale, come un reagente, un metallo raro, una volta immerso nel bagno rivoluzionario, produce una bolla di anacronismo.
Il problema degli uomini è sempre stato: con quale linguaggio affrontare il mondo? Anche chi sceglie di usare la bussola della parola per orientarsi nella realtà , risolve la questione in modi diversissimi: pensiamo solo agli esiti opposti dell’umor bellico in D’Annunzio e Marinetti. L’adesione del giovane Piersanti – se vogliamo chiamarlo col suo nome – al Movimento è sentimentale più che ideologica: egli appare commosso dalla giovane folla commossa, subisce un fenomeno di empatia, pare che voglia stare nel flusso della vita che s’infutura, che voglia essere umano per condividere le speranze belle di un grande e giovane corpo sociale.
Allo stesso modo è colmo di commossa gratitudine nei confronti dei luminosi corpi femminili che gli si aprono. Potremmo dire che anche l’adesione di Andrea al Movimento sia di natura erotica, mentre egli per sua natura inclina a una forma di resistenza passiva: stare seduto per protesta sugli scalini e farsi sollevare dai carabinieri corrisponde alla sua indole. Vero «movimento» è forse stare fermi, in certi frangenti? Il problema maggiore per Andrea-Umberto sorge quando viene accusato di revisionismo. Il decadentismo è ancora «una questione privata» e può ancora essere tollerata. Ma il revisionismo ha a che fare con la realtà  politica, è una contestazione della contestazione. Andrea già  legge il mondo illuminato dall’eversivo lume dei poeti e in particolare di Pasolini, l’eretico. Ma, nei primi anni Settanta, non è ovvio che un comunista prenda le parti di Pasolini che prende le parti dei poliziotti. A questo punto Andrea deve tradire se stesso o la traduzione aggressiva di un ideale di giustizia sociale che condivide in pieno. Il percorso per raggiungere la medesima meta dei compagni in lui sarebbe diverso: quando il Movimento comincia a ficcarsi nell’imbuto di una violenza che pare senza ritorno, Andrea se ne distacca, spaventato.
Tanti anni dopo – adesso – chiuderà  questo suo dolceamaro resoconto con lo spettacolo mirabolante di un doppio arcobaleno: a sottolineare, sì, ancora una volta lo splendore della cosa naturale, ma soprattutto, crediamo, a significare luce, che non cede neanche al pianto di tutto il cielo, una tenace e alta risorsa di pace. Senza altra spiegazione che guardare.


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