Martini, la lezione della pietà
Quando un cristiano dice di credere in Dio deve essere consapevole che sta parlando di Gesù Cristo che è Dio, cioè di un uomo con comportamenti umani, nato, morto e risorto perché è Dio.
Si può affermare che quando Dio ha voluto toglierci dalle nostre immaginazioni, dalle immagini con le quali l’umanità nei secoli ha rappresentato Dio, si è fatto uomo. Ha mangiato, dormito, parlato, camminato, insegnato come un vero uomo. È un uomo che si arrabbia, si intenerisce, ha compassione, ha simpatia, è un amico straordinario dei suoi compagni, polemico coi nemici ma pronto al perdono.
È Dio, la faccia di Dio, quella che noi possiamo conoscere e seguire perché è la faccia di un uomo: è Gesù detto il Cristo, il Figlio di Dio. Io consiglierei i cristiani di non dire più che credono in Dio né di impegnarsi a immaginare le sue caratteristiche o i suoi comportamenti deducendoli da pur raffinati concetti teologici, ma di dire che credono a Gesù che è Dio: grazie ai Vangeli il suo modo di essere uomo tra uomini potrà illuminarci su come possiamo esserlo anche noi.
Il cardinale Martini era troppo prudente e gentile per fare affermazioni come le mie o, almeno, non in questa maniera. Martini affermava, leggeva la Bibbia, la interpretava con competenza e delicatezza per spiegare ai cristiani che il loro maestro è Gesù di Nazareth. Il cardinale Martini ci esorta a non indulgere nelle affermazioni e nelle dimostrazioni dell’esistenza di Dio attraverso il ragionamento e le dichiarazioni rituali, quanto piuttosto a testimoniare l’esistenza di Dio con i fatti e le scelte concrete della vita quotidiana.
Per un cristiano Gesù è vivo ed è un compagno di strada, non un ricordo storico e men che meno un concetto. È attraverso l’Eucarestia che ne affermiamo la presenza. E ancora il cardinale ci invita a fare un passo oltre, a rinnovare la testimonianza della nostra fede in Lui attraverso la nostra stessa vita, una testimonianza che chiamiamo il compito missionario di ogni credente, un compito che è nello stesso tempo relazione e contemplazione, due aspetti che non possono essere separati. Egli ci ricorda a quale rischio si va incontro: «Infatti Tu sei sempre con noi. Siamo noi, invece, che non sempre restiamo con te, non dimoriamo in te. Per questo non sappiamo diventare la tua presenza accanto ai fratelli» (Partenza da Emmaus, pagina 198)
Quando pensiamo alla testimonianza, è necessario riferirsi a chi è compagno di fede come a chi non è mai stato o non è più credente. A chi è geograficamente distante ma anche a chi è talmente vicino a noi che, talvolta, rischiamo di non vedere e di non averne cura. Qualcuno ha detto che una delle imprese più difficili per gli uomini e forse anche per Dio è di far diventare cristiani i preti ed i cattolici.
Non credo lontana dai pensieri dell’arcivescovo Martini la preoccupazione, ed anche un po’ la tristezza, nel constatare quanto le nostre comunità cristiane abbiano raramente a tema la missione. Molto occupati a curare le proprie comunità , sembrano non avere tempo ma soprattutto passione per la testimonianza della fede verso coloro che sono lontani, geograficamente, certo, ma direi soprattutto culturalmente. È lo stesso cardinale a ricordarci che: «Il rischio per la vita parrocchiale è di venire privata a poco a poco di forti e drammatiche stimolazioni e di adagiarsi nella ripetizione dei gesti e dei riti» (Partenza da Emmaus, pagina 208).
La missione, la testimonianza di fede si esprime solo in piccola parte con le parole. È invece attraverso i gesti, i comportamenti mossi dalla capacità di compatire, che il cristiano raccoglie ed esprime più propriamente la testimonianza di Gesù. Ed ecco che il cardinale Martini fa seguire alla Partenza da Emmaus la lettera Farsi prossimo, indicando nella Carità l’espressione più concreta della fede cristiana.
Emblematica ed affascinante la esegesi, il commento della parabola del Buon Samaritano che apre la Lettera per l’anno pastorale 1985-1986. I pochi personaggi protagonisti riescono a rappresentare i diversi, estremi atteggiamenti possibili di fronte ai bisogni e alla sofferenza: dall’indifferenza alla partecipazione.
Verrebbe da dire, e non solo in questo racconto, che Gesù ce l’avesse con i religiosi del suo tempo e ciò dovrebbe anche essere un elemento di riflessione per noi religiosi di questo tempo.
I due religiosi stanno andando al Tempio, vedono il ferito a terra, decidono che non è compito loro e poi non hanno tempo né possono diventare impuri per aver toccato chissà chi, ferito.
Il Samaritano ha un solo pensiero ed ha un solo atteggiamento: c’è un ferito a terra, io ci sono, me ne occupo e poi me ne assumo la responsabilità . Nessun giudizio, l’unico motivo è il bisogno dell’altro.
Martini sottolinea che il comportamento del samaritano è definito da una sola parola greca che significa «Fu mosso a compassione». È lo stesso termine che descrive i sentimenti di Gesù di fronte al dolore della vedova di Nain che piange la morte dell’unico figlio.
Nelle intenzioni dell’arcivescovo il racconto del Samaritano non vuole significare solo l’intervento nelle emergenze, ma un atteggiamento costante, uno stile di vita che dobbiamo cercare di esprimere ogni giorno. Occorre collocarsi nella storia del proprio tempo, «vedere» le persone, abbandonare la tentazione del giudizio per attivare il sentimento della vera compassione. E la risposta deve tenere insieme due aspetti necessari: la capacità di costruire rapporti educativi e spirituali e quella di saper rispondere concretamente ai bisogni materiali. Nell’Ultimo Giudizio il criterio sarà : «Avevo fame. Avevo sete, ero senza casa, ero un detenuto in carcere, ero malato, siete venuti a soccorrermi. Io ero là ». Il cardinale Martini sapeva bene non essere compito della Chiesa sostituire le responsabilità delle amministrazioni e della politica. Sapeva molto bene, il nostro arcivescovo, che la carità può e deve significare anche che i cristiani sono attivi nel richiedere giustizia, in particolare per affermare e difendere i diritti di tutti con una cura speciale verso chi non ha voce. Per Martini, come per un altro vescovo di Milano diventato Papa Paolo VI, la politica è un importante esercizio di carità .
Raccolgo il suo invito e cerco di fare mie, per voi, le sue indicazioni proponendo alcuni esempi di testimonianza cristiana che sia concreta, collocata nel nostro tempo, accogliente per tutti gli uomini e le donne impegnate a costruire una società migliore. Proviamo a concretizzare la carità anche verso alcuni bisogni che sono diventati ormai emergenza quotidiana. Il sostegno alla famiglia non sia espresso solo a parole ma, per esempio, con l’impegno a rendere accessibili gli affitti; il sostegno al mondo giovanile non sia solo un auspicio ma diventi investimento negli oratori e in tutte le forme di preparazione e di accesso al lavoro. D’altra parte è lo stesso cardinale che ci ha invitato «a non accontentarsi di dire “Signore, Signore”, ma a fare concretamente la volontà del Padre e a mettere in pratica la parola del Signore» (Farsi prossimo, pagina 281).
* Cappellano dell’Istituto penale per i minorenni «Cesare Beccaria» di Milano
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