by Sergio Segio | 6 Dicembre 2012 9:11
Così ha riferito la Procura alla Corte costituzionale, che l’altro ieri ha accolto il ricorso del capo dello Stato disponendo la distruzione di quei nastri. Ma prima che l’ordine venga eseguito, passerà altro tempo. Innanzitutto gli inquirenti devono aspettare le motivazioni della sentenza emessa dalla Consulta. Al momento esiste solo un comunicato di sette righe con cui il presidente della Corte ha reso noto il contenuto del verdetto, ma si conosce ancora troppo poco delle modalità con le quali procedere alla distruzione delle intercettazioni. Nella sua brevità il comunicato spiega che le operazioni dovranno svolgersi secondo «modalità idonee ad assicurare la segretezza del contenuto» di conversazioni intercettate. Con una ulteriore specificazione: tutto dovrà avvenire «esclusa comunque la sottoposizione al contradditorio delle parti». Cioè senza che nessun avvocato, chiunque rappresenti, possa venire a conoscenza di quelle registrazioni, e interloquire con pubblici ministeri e giudici. È una prassi pressoché sconosciuta al codice, al punto che la Corte, citando il terzo comma dell’articolo 271, ha dovuto poi inserire le sue postille; segno che la norma citata, di per sé, non assicura l’assoluta segretezza invocata dai giudici costituzionali. È quello che hanno sempre sostenuto i pm di Palermo, i quali continuano a rivendicare la correttezza dei propri comportamenti e lo scrupolo con cui hanno protetto la riservatezza di quelle intercettazioni indirette e casuali. Secondo la loro interpretazione delle norme, era da escludersi il ricorso a quell’articolo del codice, ma ora saranno obbligati a farlo. Non prima, però, delle motivazioni in cui la Consulta potrebbe fornire ulteriori elementi sulla procedura da seguire. A quel punto la palla passerà al giudice dell’indagine preliminare, il quale a sua volta dovrà decidere il da farsi. E se riterrà che le indicazioni contenute nella sentenza della Corte confliggono con altre norme e con la giurisprudenza della Cassazione, potrebbe sollevare lui un’eccezione di incostituzionalità dell’articolo 271 così come interpretato dalla Consulta. «La decisione che è stata appena presa vale nel conflitto di attribuzione instaurato fra la Procura e il Quirinale, non verso altri soggetti come il giudice che avrebbe la possibilità di rivolgersi nuovamente alla Corte», spiega il costituzionalista Alessandro Pace, difensore della Procura di Palermo nel conflitto appena risolto e fortemente critico verso le conclusioni a cui sono giunti i giudici costituzionali. Non è detto, insomma, che il groviglio sia dipanato definitivamente. Dopo il pronunciamento dell’altro ieri, la parola torna anche a chi era intenzionato a chiedere l’acquisizione di quelle telefonate agli atti del processo sulla trattativa (stralciato da quello principale al momento della conclusione delle indagini), in corso davanti al giudice dell’udienza preliminare. Tra i difensori dei dodici imputati per i quali i pm hanno chiesto il rinvio a giudizio, gli avvocati dell’ex ministro Mancino (accusato di falsa testimonianza) avevano chiesto la separazione dei procedimenti proprio in attesa della sentenza della Consulta; il loro assistito, sostennero, avrebbe potuto avere interesse ad ascoltare e utilizzare le conversazioni con il presidente Napolitano, qualora contenessero elementi utili alla propria difesa. Ora difficilmente potrà dare seguito ai suoi propositi. E qualora altri insistessero con una simile richiesta (ad esempio Massimo Ciancimino, che si era già rivolto ai pubblici ministeri, infrangendosi contro un deciso «no») il giudice potrebbe considerare irricevibili le istanze. O magari rivolgersi pure lui alla Consulta. Del resto, agli atti del processo sulla trattativa le intercettazioni col capo dello Stato non ci sono, e dopo la sentenza della Corte ogni strada per farcele entrare s’è fatta più impervia. Se non definitivamente sbarrata.
Giovanni Bianconi
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