Lucio Magri, il tormento di un comunista eretico

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U n anno fa in questi giorni Lucio Magri metteva fine alla sua vita. Era una decisione meditata a lungo, da quando lo spegnersi di una creatura molto cara aveva aggiunto un personale dolore alla deludente vicenda politica di fine secolo, cui non si riteneva più in grado di portare un contributo. C’è ancora qualcuno cui non basta vivere, deve vivere per un fine, e se il fine sembra smarrirsi preferisce andarsene. Lucio era di questi.

Ora esce per la casa editrice Il Saggiatore una raccolta dei suoi scritti, Alla ricerca di un altro comunismo, rinviando al sito a suo nome l’opera intera, una quantità  di articoli, saggi, relazioni sempre «per un fare». Al sito sono consegnati anche gli articoli giovanissimi usciti sulla rivista «Il ribelle e il conformista»: Lucio viene infatti dalla Dc di sinistra di Bergamo, riferimento Dossetti. Ma presto ha maturato, assieme a Giuseppe Chiarante, Mario Melloni (Fortebraccio) e Ugo Bartesaghi, il passaggio nel Pci.
Di cui aveva letto molto — in punto di teoria ne sapeva, come succede, più di chi vi era nato dentro — e aveva colto la distanza dal Pcus che Togliatti poteva prendere dal momento in cui la divisione delle sfere di influenza a Yalta collocava l’Italia da questa parte del mondo. Il Pci portava con sé Antonio Gramsci, che, in quanto «fondatore del nostro partito», non sarebbe stato mai consacrato ma neanche maledetto dall’Internazionale. Con Gramsci passava nei comunisti italiani la riflessione più acuta e inquietante sulla natura delle società  occidentali. Che cosa era stata la rivoluzione mancata in Europa nel primo dopoguerra? E perché era mancata? Che cosa le avrebbe consentito di vincere in un Paese complesso, con una vasta, acculturata e contraddittoria società  civile? Non era soltanto questione di come prendere il potere, ma di come trasformare i rapporti sociali. Non sarebbe potuto essere come nella Russia del 1917.
Domande che lo sviluppo del capitalismo avrebbe reso più pressanti. Quando, nel 1962, l’Istituto Gramsci organizzò un convegno sulle tendenze del capitalismo italiano — stava finendo il dopoguerra, si squadernava il problema di che cosa eravamo destinati ad essere nel disegno della classe dominante e come il partito vi si doveva attrezzare — Magri aveva letto in questa chiave l’Italia che cambiava, suscitando le ire di Giorgio Amendola. Quel suo intervento, pubblicato negli atti del convegno ma poi ampliato per «Les Temps Modernes» di Sartre, è il primo degli scritti proposti ora, ed è la sua sigla. Di più, rispondeva alle domande di molti, sia nel partito sia nel sindacato, di fronte ai mutamenti che il boom provocava, specie nell’allora «triangolo industriale» del Nord.
Lucio era sceso infatti da Bergamo prima a Milano, incontrando alcuni di noi, poi a Roma e presto in Botteghe Oscure, accompagnato da un’aura un po’ eretica, sicuro di sé e — pochi lo immaginavano — intimidito per essere «arrivato dopo». Fece un curioso percorso, più vicino di altri al gruppo dirigente, specie a Longo e poi a Pietro Ingrao, ma non inquadrato bene nell’apparato. Se si aggiunge che era un gran bel ragazzo, sempre in testa nello sci e nel nuoto — cosa che gli uomini perdonano ai loro fratelli di sesso meno di quanto le donne perdonino alle loro più avvenenti sorelle —, si capisce perché rimanesse a lungo un outsider.
Così, attraverso la guerra fredda, conobbe la ripresa delle lotte negli anni Sessanta che seguiva alla grande migrazione dal Mezzogiorno. L’Italia cambiava ancora, ma Togliatti morì d’improvviso e ogni analisi e scelta venne colorata dal profilo di chi ne sarebbe stato il successore, Longo essendo un interim. Ingrao o Amendola? Nel 1966 l’XI Congresso vide una specie di «esecuzione» di Ingrao, e lo sterminio di quelli che gli erano più vicini, tutti retrocessi a incarichi laterali. Magri, l’outsider sospetto, fuori da ogni incarico.
Fu un esilio, e tale era ancora quando l’Italia fu attraversata dall’onda degli studenti nel ‘68 e dei nuovi operai nel ‘69, la sola che sfondasse i limiti sindacali, alla Fiat, alla Dalmine, a Porto Marghera, dovunque. Erano figure sociali nuove, prodotte dallo sviluppo, e premevano alle frontiere dei partiti e dei sindacati. Il Pci non attaccò quel movimento ma non lo apprezzò, doveva ancora lanciare Berlinguer. Ed erano mesi tempestosi. Alla contesa russo-cinese si aggiungeva la minaccia sovietica sul nuovo corso a Praga e la questione del Vietnam divideva i Paesi socialisti e, in sordina, lo stesso Pci.
Per la prima volta la sinistra interna si oppose alle Tesi per il XII Congresso, liberando il dibattito in diverse federazioni. A Pintor, Natoli, Rossanda fu consentito di parlare anche al Congresso, nel silenzio e poi applausi scroscianti della sala, perché i comunisti amavano le opposizioni di sinistra a condizione che a un certo punto rientrassero. Sulle scalinate, perché neppure delegato, c’era Magri. Non eravamo una frazione ma una rete comune di idee, formatasi negli anni, sostenuta — sembrava — da un sussulto internazionale, e stavolta fiduciosa di passare. Ma l’onda congressuale che pareva portarci si ritirò. Fummo battuti e ci si tolse ogni residuo incarico.
Decidemmo di dar vita a un mensile, costruire un polo politico e culturale attorno a una rivista della quale Magri ed io prendevamo formalmente la direzione, ma con Pintor, Natoli, Castellina, Parlato, Maone a Roma, Eliseo Milani e Petenzi a Bergamo, Vermicelli e Alberganti a Verbania, Usai e Montani ed altri a Torino, un folto gruppo a Napoli con Tecce, e così in altre province italiane. Vendemmo troppo, decine di migliaia di copie, e il partito (e il Pcus) non lo sopportarono. Quando Magri scrisse, nel settembre 1969, l’articolo «Praga è sola», denunciando l’isolamento in cui erano stati lasciati Dubcek e i protagonisti della Primavera cecoslovacca a un anno dall’invasione sovietica, venne giù il mondo. Due comitati centrali, discussione in tutte le federazioni, e un terzo comitato centrale per bloccarla: avevamo colto un bisogno reale. In breve fu la radiazione, termine più soave per espulsione.
Comincia allora la vicenda del «manifesto», gruppo politico e giornale, che Luciana Castellina delinea con limpidezza ed equilibrio nella prefazione al volume, non facile perché non esente da rotture. Magri lavora sul gruppo, Pintor sul giornale; eravamo troppi per restare una rivista, e perfino un giornale (anche se il quotidiano fu un’avventura clamorosa), e troppo pochi per essere un partito. Del resto non avevamo voluto esserlo, non invitammo a una scissione, l’ambizione era di meno e di più: saremmo stati, come ebbe a dire Lucio, il Vietnam del Pci, una insorgenza che non lo metteva in pericolo ma che non sarebbe stato in grado di chiudere.
Non andò così. Non solo il Pci ma il lungo decennio Settanta e la crisi della sinistra ci resero assieme inaffondabili e laterali. Sia il pezzo di Castellina sia la lunga intervista fatta a Lucio nell’ultimo anno da Famiano Crucianelli e Aldo Garzia, suoi compagni ed amici di sempre, ricostruiscono le tappe e i dilemmi di oltre un ventennio, attraverso le loro domande e il suo rispondere, a volte un poco reticente, di chi sente ancora la responsabilità  di un dirigente. Sta di fatto che Magri e i molti che lavoravano al gruppo, nel quale ci raggiunse Lidia Menapace, si trovarono subito stretti tra una base che voleva esistere, e non solo come lettore o in un’organizzazione indefinita, e chi si misurava, ma soltanto con la scrittura, sui grandi problemi. Il primo dilemma fu se andare o no alle elezioni del ‘72, prevalse il sì e «riempimmo le piazze ma lasciammo vuote le urne», e non è così paradossale come può sembrare.
Soprattutto Lucio Magri non accettava il radicalismo spesso sommario di una nuova sinistra «vogliamo tutto» e un Partito comunista in permanenza preoccupato di una reazione di destra, alimentata dall’esito cileno del ‘73 e dal formarsi di gruppi armati. Su questo ci fu una divisione anche fra lui e me, che gli sottrassi nel modo più illegittimo il gioiello del gruppo che era il giornale (ma non cessai di essere la sorella grande, quella con cui azzuffarsi fino all’ ultimo). Allo stesso modo Berlinguer tentò un incontro fra il movimento cattolico, mal individuato nella nomenclatura democristiana, e il comunismo italiano, contro una modernizzazione senza valori coltivata dal Psi di Craxi. Tentativo fallito non solo perché l’interlocutore, che egli vedeva in Aldo Moro, non aveva la Dc con sé, e finì ucciso dalle Br, ma per un errore di valutazione sulla natura del partito cattolico e sulla fase — cominciava in quegli anni, nonostante i successi elettorali, la crisi del Pci, sulla quale Magri e Filippo Maone scrissero un saggio decisivo, e si delineava, nella stagnazione brežneviana, quella dell’Urss.
Magri ed altri perseguirono la formazione di un partito, il Pdup, con la sinistra socialista di Vittorio Foa, l’ex Psiup, e gli aclisti di sinistra di Giangiacomo Migone. Ci dividemmo di nuovo. In verità  Magri non si era accontentato mai delle scorciatoie pratiche e ideali della nuova sinistra e tantomeno ne capì gli estremismi (non condivise la parola d’ordine «né con le Br né con lo Stato») né tollerava il «compromesso storico», pur apprezzando l’accento di Berlinguer sulla questione morale. E perfino sull’austerità , che i più fra noi, me inclusa, interpretarono come una premessa al rigore ma cui egli dava il senso di rifiuto d’una produzione ormai di spreco. La sua riflessione più compiuta sul «che fare» è quella presente nel volume appena uscito, nel saggio «Valori e limiti del riformismo». Ma quando Berlinguer, dopo l’uccisione di Moro, modificò il suo giudizio sulla Dc e, messo spalle al muro da una direzione incline all’unità  nazionale, andò alla svolta che lo avrebbe portato ai cancelli della Fiat occupata, Magri guardò a lui con interesse. E avvenne anche il reciproco.
Il Pdup negoziò un ritorno nel Pci, entrando fin nella direzione. Ma Berlinguer morì d’improvviso e gli immensi funerali di popolo fu come se dicessero addio a un’epoca. A Magri non restò che dibattersi contro la devastazione del Pci fra cambiamenti di nome e di fisionomia, poi passare a Rifondazione e anche in quella sede dibattere e dibattersi. Non si dette pace nella battaglia fra un rivoluzionarismo che considerava di poco spessore e un riformismo dall’orizzonte sempre più ridotto; la storia, del resto, avrebbe gettato a margine l’uno e l’altro negli anni che seguirono. Più tardi si sarebbe interrogato su due «occasioni» mancate: la prima, se muovendoci con più prudenza, saremmo riusciti a restare un Vietnam dentro al Pci, e credo che su questo sbagliasse, la seconda quando, nella riunione per il «no» al cambiamento di nome e identità  del Pci ad Arco, Ingrao non se la sentì di lasciare il partito ed egli non ebbe il coraggio o la presunzione di prenderne il posto. Non so se la storia del Pci sarebbe stata diversa, certo quella di Rifondazione.
Ritiratosi dalla vita politica, ha lavorato, solitario e indolenzito, a una ricostruzione problematica della storia del Pci. L’ha titolata Il sarto di Ulm (Il Saggiatore, 2009), dall’aneddoto di Brecht sull’artigiano che, persuaso di poter volare, s’era schiantato a terra — ma ora gli uomini sono giunti ad alzarsi in volo. E l’aveva conclusa con un saggio che, in parte provocato dalla esperienza di Arco, si riallaccia all’intervento del ’62 che apre il volume attuale. Sempre sulle possibilità  di una formazione rivoluzionaria dei nostri tempi, così lontani dal 1917, e che ci hanno lasciati con le ossa rotte. Il suo discorso non lascia spazio a risentimenti o accuse, non attiene a una fede ma a un ragionare acerbo sul volgere del mondo. Finito il libro — che resterà , afferma Perry Anderson — Lucio ha orgogliosamente chiuso i suoi giorni.


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