by Sergio Segio | 7 Dicembre 2012 16:14
Se è vero quello che usava dire Giovanni Michelucci, e cioè che «l’architettura è un paese per vecchi» (o meglio per longevi), allora Oscar Niemeyer è stato di certo il decano del ristretto club di maestri ultralongevi che hanno accompagnato l’intera parabola di ascesa, diffusione e declino dell’architettura moderna lungo tutto il secolo ventesimo. Philip Johnson (1906-2005) e Ignazio Gardella (1905-1999), oltre allo stesso Michelucci (1891-1990) e a pochi altri eroi modernisti, hanno esteso il loro impegno professionale e la loro voglia di partecipare alla discussione fino alla soglia del cento anni, Niemeyer si è spento nella notte di mercoledì a quasi 105 anni, dopo aver preso parte ancora di recente all’inaugurazione di edifici e sculture urbane seguite con passione fino all’ultimo.
Nato a Rio de Janeiro il 15 dicembre 1907, laureato nel 1934, apprendista nello stesso anno presso lo studio del suo docente e indiscusso fondatore del modernismo sudamericano, Lucio Costa, Niemeyer ha già nel 1936 la possibilità di incontrare e collaborare con Le Corbusier, chiamato come consulente al gruppo di progettazione del nuovo ministero brasiliano dell’educazione. Da quel momento non avrà più dubbi su come mettere a frutto la sua torrenziale produttività e il suo sconfinato talento. Le Corbusier è e rimarrà sempre il suo faro, dispositivo necessario per mettere insieme l’ottimismo politico e figurativo del primo modernismo con le passioni sudamericane per la luce accecante, il cemento brut o intonacato di bianco, l’ardimento strutturale e la potenza curva e scultorea del barocco brasiliano del XVIII secolo.
Le opere del primo periodo di Niemeyer sono l’applicazione perfetta di questa versione antirazionalista di un lessico moderno fatto di edifici sospesi su pilotis, frangisole, tetti-giardino, promenades architettoniche ardite e sorprendenti. Il tutto però tradotto e adattato a una «scala americana», dove tutto è più grande, più nitido, più letterale. Il padiglione brasiliano per la fiera di New York del 1939 (con Lucio Costa) e gli edifici per il quartiere di Pampulha a Belo Horizonte (1941-42) sono le icone di un periodo particolarmente felice, nel quale si consolida anche la collaborazione con il paesaggista/pittore Roberto Burle Marx. Insieme precisano una specie di nuovo stile nazionale, che si basa su un’armonia tra il disegno delle forme architettoniche e quello degli spazi aperti che il modernismo europeo e nordamericano non raggiungono mai.
I progetti per Pampulha sono anche l’occasione per un altro incontro cruciale dopo quelli con Lucio Costa e Le Corbusier. A chiamarlo infatti è il giovane sindaco di Belo Horizonte, Juscelino Kubitschek de Olivair, futuro presidente del Brasile e futuro deus ex machina della fondazione di Brasilia. Attraverso la collaborazione con le istituzioni politiche e le vicende storiche del decennio della guerra mondiale, Niemeyer si avvicina al comunismo e non lo abbandonerà più: «Oscar Niemeyer e io – dirà un giorno Fidel Castro – siamo gli ultimi comunisti».
L’impegno politico, il suo carisma artistico e la vicinanza con la classe dirigente del paese permettono all’architetto carioca di sviluppare in Brasile una versione politicamente accreditata del modernismo, che acquisisce quello status di stile progressista «ufficiale» che in Europa non otterrà mai: «l’architettura moderna finisce per essere accolta in Brasile – spiega Frampton – come una questione di politica nazionale». Dopo aver partecipato nel 1947 alla sofferta gestazione del progetto Palazzo delle Nazioni di New York, poi firmato da Harrison, nel 1955 Niemeyer progetta la sua prima opera importante fuori dai confini del paese: il museo di arte moderna d Caracas.
Nel 1956 Kubitschek, diventato presidente, lo chiama a casa sua e gli dice che insieme devono costruire la nuova capitale nel cuore remoto del paese: Brasilia. Niemeyer reagisce in due modi: da un lato comincia da subito a progettare alcuni degli edifici cardine della nuova città , il Palazzo del Governatore, l’albergo dei funzionari, e dall’altro organizza il concorso per il disegno del masterplan, che sarà rapidamente aggiudicato al suo vecchio maestro, Lucio Costa. Nata forse sotto l’influenza del progetto lecorbusiano per la capitale del Punjab, Chandigarh, per molti critici Brasilia rappresenta per Niemeyer uno snodo simile a quello che la città indiana segna per Corbu: la scala large diventa extralarge, la monumentalità e l’assialità hanno la meglio sulla plasticità , l’architettura istituzionale trova insormontabili ostacoli nel dialogo con la città minore e i quartieri degli abitanti comuni, l’unica linfa viene dalla crescita incontrollata delle favelas. La critica ha di certo fondamento, ma è vero anche che la continuità tra l’opera pre e postbrasilia rimane piuttosto solida.
Vero è, comunq ue, che dopo Brasilia Niemeyer sembra consapevole di godere di una libertà virtualmente sconfinata: può permettersi qualsiasi stravaganza formale e qualsiasi azzardo strutturale, il suo paese e i tecnici si impegneranno al massimo per realizzarli. Il talento scorre così senza freni, alternando edifici e opere il cui manierismo si fa a volte ansiogeno. Ma è ancora una volta la politica brasiliana a imprimere una svolta nella sua biografia. Nel 1961 si installa una dittatura militare che ovviamente non è particolamente a suo agio con l’influenza e lo stile di lavoro del progettista. Lentamente Niemeyer viene indotto a allontanarsi dal paese e infine nel 1965 trasferisce il suo studio a Parigi, da dove si dedica a un’attività di carattere decisamente internazionale. Lavora in Libia, in Algeria (l’università di Constantine, l’aeroporto di Algeri) costruisce complessi importanti a Tel Aviv e Haifa, realizza a Parigi la sede del partito comunista e la torre della Défense. Negli anni ottanta, tornata la democrazia, torna a lavorare in Brasile e realizza, oltre a un’altra serie di progetti per Brasilia, i suoi edifici più noti e riusciti, la Passarela do Samba a Rio (1985) e il bellissimo museo di Niteroi (1996).
A suo modo Niemeyer è un mito globale e una superstar antelitteram, abituato a un carisma e a un ruolo sociale che al tempo il Sudamerica ricosceva solo ai poeti e ai politici e che ha avuto influenza sulla sua fama internazionale, fino al Pritzker Prize assegnatogli nel 1988. In Italia è noto soprattutto per due edifici, entrambi molto conosciuti. Il primo, terminato nel 1975, è la sede della Mondadori a Segrate, una specie di acrobazia strutturale sospesa su grandi specchi d’acqua, destinata a dimostrare che il tardomodernismo non era solo fatto di noiose facciate continue di vetro e infissi. Il secondo, appena inaugurato, è il controverso auditorium di Ravello, un guscio bianco di cemento appoggiato con molto coraggio e qualche goffaggine (comprensibile in un signore di più di cent’anni) sulla rupe scoscesa che da Ravello scende al mare.
Proprio la disarmante produttività di Niemeyer, il suo facile accesso al successo presso pubblico e istituzioni ha spesso reso la critica diffidente nei suoi confronti. I giudizi sono alterni e gli studi monografici seri non abbondano, soprattutto in anni recenti, soprattutto in Italia, se si esclude un bellissimo numero dedicato da «Casabella» ai cinquant’anni di Brasilia nel marzo 2007. La sua scomparsa sarà di certo occasione per colmare questa lacuna.
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