by Sergio Segio | 26 Dicembre 2012 9:18
Da sempre, in effetti, la lingua riflette il mondo, e il mondo di quest’anno è stato ampiamente dominato da finanza ed economia. Che queste parole siano diventate correnti non significa affatto che ne conosciamo il significato. Probabilmente solo chi già conosceva il senso di default e spread ha una cognizione precisa di cosa con questi termini si debba intendere. Per gli altri, perfino i dizionari sono illeggibili, se alla voce «spread» si legge «margine percentuale o assoluto fra i diversi livelli di quotazione di un titolo o rispetto al tasso base d’interesse» e alla voce «default» «incapacità tecnica di un’emittente di rispettare le clausole contrattuali previste dal regolamento del finanziamento».
Per i più, dunque, il default è restato più o meno solo sinonimo di crisi e lo spread un termine che ha a che fare con la valutazione del nostro andamento economico all’estero (un parametro, quindi, che c’entra con la nostra credibilità ). Tutti, però, abbiamo imparato a maneggiare questi termini, a mostrare coscienza del fatto che lo spread ricade su di noi (nonostante qualcuno dica che sia un’invenzione), a non stupirci nel vederlo utilizzato perfino nei salotti televisivi più trash; qualche bambino ha iniziato a usare «spread» già all’asilo. Il linguaggio dei tecnici insomma, se non ha prodotto un effettivo ampliamento lessicale, ha forzato la barriera ermetica di certi campi semantici, rendendoli permeabili, facendo in modo che il mondo linguistico della gente «normale» si incrociasse col mondo linguistico dell’economia e degli esperti, in virtù di una compromettente ma inevitabile interconnessione fra le sfere del mondo, tale che tasse, mutui, declassamento nei rating internazionali (altro termine chiave), credibilità , fattibilità , finiscono per intrecciarsi inestricabilmente, come nodi di una rete in cui non ci sono isole di irrilevanza.
La democrazia forse si misura anche nel linguaggio e l’abbattimento di certe barriere semantiche, la condivisione di certi termini, possono essere un primo passo di maggiore consapevolezza civile e culturale. Con le dovute cautele, e facendo le proporzioni d’obbligo, vorremmo dire che, come cinquant’anni fa l’Italia attraverso la televisione ha imparato l’italiano, oggi, attraverso il governo tecnico ha imparato una visione del mondo, di cui non conosce dettagli e tecnicismi, ma di cui ha capito le dimensioni e qualche logica, le trappole e qualche legge. Ha capito ad esempio che, per eccesso di favole e sperperi, di eccessi e intemperanze (arrivati nel 2011 a vertici basso-imperiali), si può essere declassati, e che il declassamento non è un voto che resta su misteriosi registri impalpabili della finanza, ma pesa sulle nostre buste-paga, sulle nostre tasse, sulle nostre aziende, sul futuro di chi oggi ha vent’anni.
In questo mondo del 2012 più consapevole e realista, una parola come esodato (di cui forse ancora nessuno ha capito esattamente l’origine) è suonata come un’aberrazione del sistema: unione semantica di un concetto attivo (quello di esodo, uscita volontaria) e di una forma passiva (come liquidato), termine sospeso fra il licenziamento e il pensionamento (non retribuito). Mentre «choosy» neologismo solo per il vocabolario italiano, ma lemma esistente nell’inglese colloquiale si è imposto come un errore pragmatico: termine mal scelto da chi ha osato sfiorare il fuoco (e in inglese, con chi l’inglese ahimè lo sa, ma poco gli serve): il fuoco del disagio sociale, della disoccupazione, di una quantità mai così alta di giovani che si trovano in una situazione di rara precarietà o disoccupazione e vengono pure tacciati di essere un po’ schizzinosi . In un anno che ha fatto della sobrietà la sua parola chiave per eccellenza, «choosy» è suonato come un termine un po’ troppo colorito: snob e troppo pungente, leggermente sarcastico e il sarcasmo, per sua natura retorica, rischia sempre di offendere.
Ecco allora che «choosy» ha dato vita a uno degli hashtag più condivisi della rete. Al sarcasmo si risponde per le rime. Nella rincorsa virale di reazioni creative che certe categorie scatenano in Twitter, i risentiti giovani schizzinosi si sono scatenati, creando un micro-blog «Choosy sarai tu».
Per fortuna, questo 2012 così impegnativo ha avuto anche molte sfumature: di grigio, di rosso e di nero: quelle del best seller di E.L. James, una specie di à ncora di leggerezza, fuga, infrazione, contro tutta la serietà di quest’anno, che sembrava non consentire sogni. (Non da ultimo: un’à ncora di salvezza anche per le librerie, e dunque per l’editoria, che hanno potuto respirare proprio grazie a questo successo commerciale).
E ogni tanto il Paese, stremato dal realismo, è tornato ai suoi modi da osteria con le storie di Batman (non l’eroe, ma quello imbarazzante della Regione Lazio), le vacanze del Celeste (che sembra un super-eroe dei cieli quanto Batman, e invece è stato solo troppo a lungo in un piano molto alto) e le debolezze di un capitano di lungo corso che è diventato l’epitome dell’uomo ridicolo, un concentrato di miseria (della carne) e nobiltà (del ruolo): Schettino, anomala ossessione televisiva dei primi mesi del 2012, alter ego dell’Italia coraggiosa e migliore che tutti vorremmo e non riusciamo a essere.
Sempre a distrarci dall’insostenibilità della crisi, è arrivato anche il Pulcino Pio, tormentone canoro dell’estate che, con il suo carico di versi animali da ripetere come all’asilo, è riuscito a esimerci persino dalle riflessioni e dalle introspezioni in agguato nelle canzoni cosiddette impegnate, restituendoci a un istupidimento privo di remore.
La fuga per eccellenza però perché fuga e caduta, discesa e rivincita ce l’ha offerta il cinema, in un precipitare che è l’incarnazione di un incubo di annullamento definitivo e di un sogno di rigenerazione e invincibilità : «skyfall» parola magica che ci salva dalla fine, che rende visibile il miracolo, traduzione mondana della speranza della resurrezione. Come a dire: anche quando sembra che tutto vada per il peggio, non è detta l’ultima parola: pur sull’orlo del nostro personale e nazionale skyfall, possiamo ancora sperare in un buon 2013.
Post scriptum: per ragioni ideali, ho resistito alla tentazione di includere fra le parole-chiave anche anti-politica. Purtroppo il termine ha avuto una certa diffusione, ma come diceva Roland Barthes «la lingua è fascista», e io voglio essere fino in fondo antifascista, con una scelta di «resistenza lessicale».
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