LE DIVERGENZE PARALLELE
Il “tecnico prestato alla politica” diventa un politico forgiato dalla tecnica. Il Centro Montiano non nasce come partito nella forma, solo perché il senatore a vita non si sente di tradire la missione concordata con il presidente della Repubblica che lo ha nominato.
Ma lo è, con tutti gli ossimori e le ambiguità del caso, nella sostanza. Lista unica al Senato, liste separate ma coalizzate alla Camera, e l’ex premier che accetta (secondo l’aberrazione costituzionale del Porcellum) il ruolo esplicito di “leader della coalizione”.
Dunque, la nuova Cosa Bianca ha una testa: Monti. Ha diverse gambe: i cespugli centristi. E ha anche un progetto: disarticolare gli assetti del bipolarismo, rompere lo schema binario destra/sinistra, sostituirlo con il paradigma cambiamento/conservazione, riaggregare i moderati sotto le insegne dell’ortodossia europeista e di un’economia sociale di mercato all’italiana. L’idea è ambiziosa. Addirittura velleitaria, se si considera che manca appena un mese e mezzo al voto, e che la piattaforma programmatica del Centro Montiano, per quanto salvifica in questi ultimi tredici mesi, sconta l’altissimo tasso di impopolarità della stangata sull’Imu in queste ultime settimane.
Monti cessa di essere il “candidato riluttante”, e sale in politica da “candidato militante”. Non si presterà ai bagni di folla, ma sarà in campo con il suo nome e con la sua faccia. Una scelta non scontata: prima della conferenza stampa di fine anno sembrava ormai prevalere la rinuncia. Una scelta per molti versi coraggiosa: il Professore, abituato a “concedersi” nei più alti consessi, accetta di “contarsi” dentro le urne. E qui, nell’accettazione di questa sfida a viso aperto, si nascondono insieme un’opportunità e un problema.
L’opportunità è quella di misurare quante “divisioni” ha davvero Monti, e quanta capacità di attrazione può sprigionare in quella zona grigia della società italiana sopravvissuta prima all’eclisse democristiana e poi all’apocalisse berlusconiana. Dal novembre 2011 in poi, il Professore è stato sempre popolare e mai populista. “Cooptato” a Palazzo Chigi, ci è entrato e ci ha abitato senza avere un suo “popolo”. Oggi si tratta di capire se un suo “popolo” si è formato ed esiste davvero. È una verifica importante, per un tecnocrate abituato a gestire il potere dall’alto, e non a conquistarselo dal basso. E perciò non selezionato dalla democrazia, dove valgono i consensi dei cittadini. Ma piuttosto legittimato da un’aristocrazia, dove valgono le cancellerie internazionali, le gerarchie ecclesiastiche o le dinastie industriali. Il 24 febbraio, per fortuna, non varrà la vecchia regola di Enrico Cuccia: i voti non si peseranno, si conteranno. Ed è un bene che la “conta” riguardi anche questo rinato Terzo Polo, visti i clamorosi insuccessi subiti dai tanti “piccoli centri” abortiti in questi ultimi vent’anni.
Il problema è che questo tentativo spinge Monti e i suoi “ottimati” su una posizione inevitabilmente “frontista” rispetto ai due Poli. Con la destra, per fortuna, la rottura è ormai consumata ed è irrimediabile. Berlusconi, del Centro Montiano, è un nemico non solo politico e simbolico, ma a questo punto addirittura personale. Tutto, nel forzaleghismo ritrovato del Cavaliere, è l’antitesi del montismo. E d’altro canto, se l’operazione del Professore ha un senso, è quello di ereditare in futuro l’elettorato conservatore in fuga definitiva dal Pdl, per traghettarlo dentro il porto sicuro del vero popolarismo europeo, laico, costituzionale, repubblicano. Dunque è in quell’area sociale e politica che la coalizione moderata deve cominciare a pescare, oggi e in prospettiva. Ma per fare questo, Monti deve inasprire i toni e allargare il fossato che lo separa da Bersani.
E qui il problema diventa paradosso. Con la sinistra, il Centro Montiano dovrà provare a fare un accordo, se non vuole scommettere sull’ingovernabilità , puntando a una Folle Coalizione che tiene dentro anche Berlusconi e Grillo. Un accordo non pre, ma post-elettorale, che serva a garantire una maggioranza sicura anche al Senato dove la partita è più incerta. Ma questo patto andrebbe discusso, ragionato e preparato in un clima di collaborazione tra Monti e Bersani. Invece, come dimostrano i prodromi di questi ultimi giorni, la campagna elettorale è destinata a infiammarsi intorno alla competizione tra il premier e il segretario. Il primo costretto a prendere sempre più platealmente le distanze dal Pd, per ridurre quelle che lo separano dall’elettorato del Pdl. Il secondo obbligato, per ragioni uguali e contrarie, a rimarcare sempre più orgogliosamente il presidio identitario della sinistra.
Il risultato rischia di essere a saldo zero per tutti. Parafrasando l’antica lezione di Moro, Monti e Bersani sono destinati alle “divergenze parallele”. Almeno nella prossima legislatura. Più in là ognuno riprenderà la sua strada, centro e sinistra potranno diventare alternativi. Ma non è ancora il momento. E se dunque i due leader si condannano già oggi a una cooperazione conflittuale, fanno la fine di Craxi e De Mita, e non rendono un buon servizio al Paese. La Terza Repubblica non può nascere con i vizi letali della Prima.
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