by Sergio Segio | 22 Dicembre 2012 8:48
Mi sembrano le domande fondamentali cui rispondere se si vuole prendere sul serio l’appello all’unità dei progressisti di Bevilacqua, Tronti … (il manifesto 21 dicembre).
Nella stessa giornata di ieri ho visto una dichiarazione di Antonio Ingroia che ribadisce che l’appello che ha firmato è rivolto a creare le condizioni per un governo «riformista e democratico» e letto un’intervista di Luca Orlando nella quale si ribadisce che i firmatari dell’appello che ha dato vita alla manifestazione di ieri al Capranica di Roma cercheranno fino all’ultimo di dialogare con la coalizione “Italia Bene Comune”. Tale intenzione è così evidente da aver creato una discussione all’interno del costituendo quarto polo con chi pensa che bisognerebbe rompere a priori con Pd-Sel.
Sempre ieri sul manifesto si poteva leggere un’intervista a Matteo Orfini che definiva impossibile un’alleanza con una lista che fosse guidata da Ingroia. Perché? Perché sarebbe persino più giustizialista del Di Pietro che il Pd ha messo fuori dalla coalizione senza che Sel obiettasse alcunché. Dunque, immaginiamo che Orfini si iscriva al partito che dice che i magistrati non devono entrare in politica. Peccato che nelle ultime elezioni il suo partito ne abbia candidato un numero consistente, come fa da molti anni a questa parte e come, sono pronto a scommetterci, farà anche questa volta. Diciamo che il problema non sono magistrati che entrano in politica, ma quelli che lo fanno senza la benedizione del Pd. I classici due pesi e due misure.
Perché poi il Pd con il silenzio-assenso di Sel sia così ostile all’ingresso in politica di Ingroia non è difficile da intuire, visto il conflitto con il Quirinale. È ovvio che esistono obiezioni alla discesa in campo di Ingroia, gliene muovono anche alcuni tra i suoi supporter. Ma un conto è che una simile obiezione venga da chi si preoccupa perché una candidatura indebolirebbe la sua indipendenza, tutt’altro se viene da chi ha una lunghissima tradizione di candidature dei Pm (compreso Di Pietro al Mugello). Forse quel che non si tollera di Ingroia è proprio la sua irriducibilità a uno schieramento piuttosto che a un altro.
Ingroia a parte, mi è capitato di poter verificare di persona, confrontandomi con esponenti del Pd sul referendum per abrogare la controriforma dell’articolo 18 voluto dalla Fornero, che essi sono i principali difensori della controriforma, persino con maggior ardore del centrodestra, e che accusano tutti coloro che la pensano diversamente di essere pericolosi “demagoghi” anche se tale demagogia si manifesta in una citazione, per dire, di un grande giurista e un grande partigiano come Carlo Smuraglia che ha definito l’articolo 18 nel diritto del lavoro come l’equivalente del principio di eguaglianza nella costituzione.
Infine, dalle regioni, anche quelle dove si era già raggiunto un accordo con questa galassia alla sinistra di “Italia Bene Comune”, come il Lazio e la Lombardia, arrivano segnali di una scelta pregiudiziale di ripetere l’accordo nazionale, lasciando fuori Idv, Rifondazione, Verdi e movimenti vari per virare verso accordi con i centristi mascherati da liste civiche.
L’impressione dunque è che l’appello all’unità dei progressisti debba essere rivolto a chi, avendo chiarito che considera essenziale governare insieme a Monti e alla sua agenda, non accetta l’ingombrante presenza proprio di quella “sinistra” e di quei “movimenti” cui i firmatari dell’appello si rivolgono.
Sono un elettore di Nichi Vendola al primo turno delle primarie e francamente non comprendo perché da lui non sia venuta una sola parola contro questa discriminazione a sinistra. Se non accetta di governare in accordo con Monti, come Bersani ha spiegato di voler fare, dovrebbe considerare questo polo di alternativa come suo alleato e interlocutore. Aprendo ovviamente una discussione programmatica sui reali contenuti di un alternativa di governo, dove si dia valore a entrambi i termini: “governo” ma anche “alternativa”. A meno che, dando per scontato che la prospettiva non sia un governo Bersani-Vendola bensì Monti-Bersani, Sel non si accontenti di una quota di parlamentari che le garantiscono la sopravvivenza come partito.
In sostanza, il Pd usa Sel contro Idv e sinistra, come fece con Idv contro Sel e sinistra nel 2008. E si è visto come è andata a finire.
E’ evidente che una lista di alternativa non può essere una semplice sommatoria di sigle e di vecchie facce. La vera sfida è sulla capacità di presentare candidature “stupefacenti” e innovative. L’area dell’alternativa ha un bacino immenso nell’autorganizzazione dal basso che si è espressa nei referendum, nell’intellettualità non rassegnata al pensiero unico, nella lotta per i diritti del lavoro, e anche nei partiti che hanno rappresentato l’opposizione a Berlusconi e a Monti, purché accettino di essere “parte” di un processo che non è interamente nelle loro mani.
Con saggezza e generosità comporre questo puzzle è possibile.
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