L’autorappresentanza necessaria
Certo, c’è il maggioritario. C’è la paura della destra e della dispersione del voto. Ci sono “errori” che non si scontano più (la partecipazione al secondo governo Prodi con tanto di appoggio alle missioni di guerra e alle mozioni D’Alema per il Dal Molin, le decisioni del ministro ai Lavori Pubblici Di Pietro che hanno salvato sia il Tav che la società del Ponte, ecc.). C’è l’antipolitica che non fa distinzioni. Ci sono le litigiosità dottrinali e i settarismi insopportabili… Ma tutte queste sono quisquiglie in confronto a ciò che ritengo sia il nocciolo del problema irrisolto della sinistra: l’idea di rappresentanza in cui è ancora immersa e che ancora persegue. I movimenti, le organizzazioni sociali compresi i sindacati, le associazioni… tutto ciò che agisce in presa diretta nei conflitti non sarebbero altro che “corpi intermedi” pre-politici, buoni ad agitare le acque, utili ad esercitare pressioni lobbistiche, ma obbligati a cedere il passo sulla soglia delle elezioni agli unici costituzionalmente titolati alla rappresentanza istituzionale: i partiti. Questo schema – che pure ha funzionato fino ad un certo punto della nostra storia – è completamente saltato ed è sbagliato continuarlo ad usarlo, a dispetto della disaffezione di massa che lo colpisce (a sinistra) e della spettacolarizzazione televisiva che lo ha sostituito (a destra). Quando Viale ed altri chiedono un passo o due indietro alle segreterie generali nazionali dei partiti, in realtà propongono un grande salto in avanti: lavorare per facilitare la formazione di una autorappresentanza dei movimenti. Quello che Piano Ferraris chiamava «confederazione delle autonomie sociali». Capire, insomma, che nessuno è interessato a dare deleghe a personale politico che non sia parte interna (non espressione) di sé stesso.
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Che il Pd nella fase della sua dissoluzione sarebbe finito, insieme al suo “facilitatore” Napolitano, in bocca a Berlusconi, fino a subirne le imposizioni più oscene, era prevedibile fin da quando aveva scelto Monti invece di una verifica elettorale che lo vedeva, allora sì, sicuramente vincente. Gli ultimi due anni hanno così messo in luce che il Pd non è un partito di governo. Perché non è, e da tempo, in grado di assumersi la responsabilità di governare, se non in compagnia di forze che possano essere presentate come «imposte dalle circostanze».
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